
The Sandman – Granelli di sabbia tra le pieghe di Netflix
Sembra ormai che i due pozzi principali da cui le piattaforme streaming vadano ad attingere per le loro produzioni originali siano romanzi più o meno (spesso meno) conosciuti e graphic novel di culto, preferibilmente di matrice anglofona perché molto più facilmente traducibili in formato audiovisivo; di conseguenza sembra quasi naturale che uno dei protagonisti ricorrenti del riempimento dei cataloghi on-demand sia Neil Gaiman, prolifico autore che ha bene o male incrociato ogni medium possibile e che è sempre ben felice – al contrario del suo collega compatriota Alan Moore, per dirne uno – di concedere le proprie creazioni alla rischiosa pratica dell’adattamento. Dopo American Gods e Good Omens per Prime Video, Gaiman ha quindi deciso di partecipare direttamente alla trasposizione per Netflix del suo gioiello fumettistico più prezioso, quel Sandman sapientemente edito da DC Comics nella sua collana Vertigo e spesso ritenuto indissolubile dal proprio medium per come ha saputo profondamente reinventarlo.

Eppure la trasposizione, che adatta sostanzialmente i primi due archi narrativi del personaggio, sembra decisamente funzionare, tanto da aver ricevuto il plauso unanime dei fan del fumetto e dei nuovi arrivati – spesso approdati alla serie attraverso l’ottimo cast – dimostrando che rispetto per la fonte ed esigenze del medium audiovisivo non devono per forza divergere. Ne consegue un prodotto seriale che apre a interessanti possibilità sul versante dei formati narrativi, restituendo all’analisi diverse chiavi di lettura possibili.
The Sandman come adattamento
Partendo da The Sandman come adattamento della sua fonte fumettistica, non si può che riconoscere un estremo rispetto da parte della produzione Netflix, garantito anche dalla presenza di Gaiman stesso in diversi reparti, compresa la scrittura. Già con Good Omens è parso evidente quanto Gaiman sappia farsi garante della tenuta identitaria delle sue creazioni e sicuramente questo paga nel momento in cui i fan dell’autore si approcciano alla piattaforma di turno per vedere su schermo la trasposizione di testi che, va detto, hanno saputo costruire intorno a loro un nutritissimo fandom attivo ed esigente.

Dove le trovate visive del fumetto necessariamente vengono tradotte da effettistica digitale al passo con l’immaginario contemporaneo, col rischio spesso di anestetizzarle rispetto all’effetto che queste sanno restituire su carta, la tenuta identitaria del prodotto viene garantita da una componente narrativa filologicamente accurata, dalla scelta di interpreti che sembrano usciti direttamente dalle vignette e da una ricerca maniacale per l’accuratezza delle inquadrature, tanto che la fonte di riferimento appare ben più segnante di un semplice storyboard. Sempre in seno DC si è assistito a qualcosa di simile solo con lo Watchmen di Zack Snyder, che ha dovuto però piegarsi alle esigenze strutturali del medium cinematografico; il formato seriale garantisce invece a Gaiman una libertà nel gestire la densità narrativa e nel riposizionare immagini iconiche totalmente inedita.
The Sandman come serie Netflix
Se è vero che Netflix vive di nicchie, non è così scontato che un titolo pur di culto come The Sandman sappia rivitalizzare un catalogo che fatica a trovare una prospettiva futura, specialmente se si considera che Neil Gaiman è un marchio condiviso con Prime Video e che la presenza della Warner tra i pilastri produttivi pesa come un macingno. Eppure la scelta di aprire le proprie porte a un prodotto di questo tipo aiuta a capire come la piattaforma di Los Gatos sia sempre attenta nel gestire le pur piccole mutazioni dei linguaggi seriali, cercando di farle riverberare all’interno della fruizione stessa dei suoi sistemi.

A un non lettore di fumetti, infatti, The Sandman può fare un effetto quanto meno curioso: ci troviamo difatti di fronte non sono all’adattamento di un racconto, ma anche all’adattamento di un modo di raccontare che è tipico del mercato fumettistico, in cui l’equilibrio tra dimensione verticale e orizzontale degli episodi è decisamente diverso rispetto a quello a cui ci ha abituato la serialità contemporanea. The Sandman non è e non vuole essere un “film diviso in parti” (espressione odiosa), ma nemmeno un procedural antologico: siamo di frotne a una sorta di ramificazione narrativa, in cui la presenza di una dimensione orizzontale che tenga insieme le linee narrative è garantita solo dal punto di partenza e non mostra l’esigenza di darsi un fine, con un’attenta semina di possibili punti di partenza per nuovi rami più o meno importanti che possono districarsi attraverso i serial interni che la serie porta con sé.

The Sandman infatti ha il coraggio di uscire dal solco contemporaneo delle miniserie e allo stesso tempo non appare come un forzato franchise in costruzione. La prima stagione, nei suoi dieci episodi, porta con sé due linee narrative ben distinte, intervallate da momenti antologici estremi: tutto ciò è quantomeno non convenzionale per la serialità contemporanea e sicuramente per il modello Netflix, tanto che fa sperare nella riscoperta di linguaggi più scalabili, che permettano al pubblico maggiori appropriazioni e più partecipazione. La speranza è che un’eventuale seconda stagione mantenga questa freschezza di linguaggio, magari riverberata anche in una maggior libertà visiva e stilistica, senza finire vittima di ripensamenti stilistici.
Il (non) multiverso DC
In coda a tutto ciò ci si conceda una riflessione che scaturisce proprio dall’estrema tenuta identitaria con cui The Sandman irrompe su Netflix a prescindere da ciò che Netflix stessa porta con sé: sulla piattaforma infatti è disponibile il (discutibile) film del 2005 Constantine (il cui fumetto d’origine, Hellblazer, è collegato a The Sandman, come ci ricorda un personaggio eccezionale della serie) e ovviamente la fortunatissima serie Lucifer che nasce da uno spin-off proprio del lavoro di Neil Gaiman; eppure le pareti tra questi tre prodotti sono solidissime, non si possono toccare in alcun modo e rimangono bolle di contenuto tanto distanti quanto lo sono i loro contesti produttivi. Quindi ci si chiede: è un errore?

Di fronte a una Disney/Marvel che fa dell’«It’s all connected!» la sua spesso impossibile missione, la DC/Warner ha più volte scelto (anche e soprattutto a partire dai fumetti) di pensare i suoi personaggi e i loro archi narrativi svincolati dalla necessità di costruire un mondo condiviso e quelle poche volte in cui ha tentato di inseguire su schermo il sogno Marvel ha fallito o fatto marcia indietro (si veda l’ancora caldo caso Batgirl); ma quando l’autonomia narrativa è una scelta questo non va ritenuto un errore, anzi! La forza dei fandom si alimenta quando vengono lasciati liberi di costruire ponti narrativi tra conenuti distanti eppure dotati di ipotetici rimandi gli uni agli altri, creando riverberi che magari non capitalizzano immediatamente, ma che si saldano in nicchie (di nuovo) che hanno dalla loro l’essere estremamente affezionate ai propri sforzi immaginifici, e quindi disposte a rinnovare sottoscrizioni quando è necessario.

The Sandman è un esempio eccellente di come si possano solleticare i fandom senza piegare la propria narrazione (e quindi la propria visione autoriale) a modelli produttivi che sicuramente hanno una resa “scottante” in termini di riscontro immediato, ma che allo stesso tempo impongono una dimensione media all’immaginario che condividono; e non si può che essere grati a Netflix di non aver costretto Gaiman ad adattare la propria creatura agli standard di Lucifer o, peggio, di Constantine!
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M’intriga molto, soprattutto la sua maschera 😁