
Blonde – Questionario per scopofiliaci | Venezia 79
— Oh povero il mio genio, — fece Marilina con un amaro sorriso, — come si vede che tu ne capisci poco della nostra vita. Essere amati non serve. Per non essere soli c’è un solo segreto: bisogna essere capaci di amare.
— E tu?
— Io… io…
Con queste parole Dino Buzzati raccontava la solitudine di Marylin Monroe e il disperato tentativo di un genio di portarla di nuovo in vita. All’alba è un racconto molto breve, che però fotografa con dolcezza – utilizzando il punto di vista del genio – il senso d’abbandono che il grande pubblico aveva provato di fronte alla scomparsa della dea dell’amore di Hollywood. Si tratta di una delle molte trasposizioni letterarie suscitate dal valore auratico dell’attrice, che sul medium cartaceo trova spesso una forma ben diversa da quella costruita dal male gaze (“sguardo maschile”) cinematografico; come Buzzati, anche lo statunitense Truman Capote aveva resuscitato l’immagine di Marylin nel racconto Una bellissima bambina. Quello che però sembra essere il contributo letterario più stratificato che uno scrittore abbia dedicato alla stella del cinema è di certo Blonde, romanzo di Joyce Carol Oates. È a partire da questo riferimento letterario – strumentalizzato ai fini di una narrazione più mistificata e perturbante – che Andrew Dominik, in concorso a Venezia 79, muove le fila della narrazione post-mortem della diva per eccellenza, dando vita a un film che non ha paura di dividere con decisione il responso del pubblico.

A distanza di pochi mesi dall’uscita in sala di This Much I Know to Be True, documentario sulla figura artistica e personale di Nick Cave, Dominik torna sugli schermi con Blonde, film che alterna colore e bianco e nero incentrato sulla narrazione di un altro personaggio appartenente alla bolla culturale dell’immaginario comune – e lo fa accantonando qualsiasi timore reverenziale nei confronti dell’oggetto del racconto, stabilendo sin dalle prime sequenze un rapporto di intimità e compassione. A venire rappresentato sullo schermo, però, non è soltanto l’aspetto più personale della vita di Marylin Monroe – dal rapporto tormentato con la madre alle vicissitudini amorose, fino all’impossibilità di diventare madre a sua volta –, quanto piuttosto il generale percorso di alienazione schizofrenica di una donna obbligata a vivere su un duplice binario: da un lato quello riconducibile ai suoi desideri personali e alle scelte che ne conseguono, e dall’altro quello creato artificialmente dalla macchina da presa e dall’industria cinematografica in toto, dietro la quale si nascondono infinite paia di occhi (maschili), che diventano obiettivi fotografici capaci di sessualizzarne la figura e trasformarne l’immagine pubblica.
L’obiettivo di Dominik, quindi, diventa quello di avvicinarsi quanto più possibile all’interiorità di una diva inconoscibile, che anche da morta non è mai stata lasciata a se stessa – basti pensare al fatto che nella cassa vicina alla sua riposi Hugh Hefner, editore e fondatore di Playboy, che aveva pubblicato in prima pagina le foto di nudo che Marylin Monroe si era fatta scattare in un periodo di difficoltà economica; foto pubblicate, ovviamente, senza che l’attrice ne avesse dato il consenso. O ancora, si pensi al vestito originariamente appartenuto all’attrice che Kim Kardashian ha sfoggiato al Met Gala di quest’anno.

Dominik racconta la progressiva scissione di Norma Jeane e Marylin Monroe, volti ormai decomposti di un singolo angelo biondo, e nel farlo ambisce a discostarsi dall’ipocrisia di un ennesimo sguardo maschile che osserva con fare predatorio il corpo dell’attrice. Marylin-Norma diventa quindi il baricentro di una ostentata riflessione mediale e metacinematografica, che interroga e sancisce i confini della perversione scopofiliaca dello spettatore: il voyeurismo che i film interpretati dalla diva implicavano nei confronti del pubblico dell’epoca viene qui rielaborato e, se possibile, volontariamente moltiplicato fino al raggiungimento di un vero malessere dello sguardo. La macchina da presa penetra Marylin, e poi Norma, e poi di nuovo Marylin, forzandoci a una violenta presa di coscienza del nostro ruolo spettatoriale nei confronti della vita personale (quindi, di Norma-persona) e pubblica (quindi, di Marylin-personaggio) dell’attrice statunitense, trasformando la carica sessuale di un seno o di una fellatio in una tortura per gli occhi – che non chiedono altro se non di vestire di nuovo l’attrice.
La vita di Marylin Monroe (una Ana de Armas mimeticamente eccezionale), battezzata da un terrificante incendio sulle colline di Hollywood e da un padre che è pura immagine, in quanto presente nella sua vita soltanto in forma fotografica, diventa in questo modo il mezzo di rappresentazione dell’effetto pornografico della sessualità iper-esposta dal cinema – ottenendo un effetto che in superficie appare simile a quello che Michael Haneke voleva ottenere con Funny Games, per quanto meno sobrio: due tipi diversi di violenza, certo, ma entrambi volutamente ripugnanti. D’altra parte, come la stessa Marylin dice durante la scena più controversa del film, poco prima di un carrello a retrocedere che diventa metafora dell’opera, «Tutte le scene possono essere girate»: dipende solo come ciò venga fatto.

Dominik muove la macchina da presa seguendo un istinto “biologico”: corpo, carne (meat), ereditarietà del corredo genetico, fecondazione, maternità negata, sesso – linee di interpretazione e figurazioni materiali di Marylin Monroe, e cioè dell’attrice che spogliata del proprio manto divistico scriveva poesie, citava Dostoevskij e Cechov, sposava il drammaturgo Arthur Miller; elementi d’intellettualizzazione che contraddicono lo stereotipo della ragazzina sciocca e ingenua e che ci fanno pensare, di fronte alla tragica solitudine della donna più amata del mondo, che forse non si trattasse di «just some blonde» – e che forse, quando Marylin ha smesso di respirare, i veri responsabili non fossero soltanto i sonniferi, l’alcool e la depressione. Dominik realizza così un film molto ambizioso, che cerca di raccontare allo stesso tempo lo sguardo opaco della diva e la sua gonna sollevata dal vento, mettendo lo spettatore nella condizione di osservare dall’esterno se stesso e chi gli siede vicino – e trascinandolo negli anfratti sconcertanti della uncanny valley, dove ogni cosa è auto-evidente, ma ben lontana dall’essere quello che sembra.
[Il film verrà distribuito su Netflix a partire dal 28 settembre].
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[…] Andrew Dominik | USA. Carne, corpo, sguardo, cinema, fama. La divina di Hollywood riempie l’immaginario e lo schermo, in contemporanea: Blonde è lo scontro metacinematografico fra Norma Jean Baker e Marilyn Monroe, tra filmico e profilmico, tra imbarazzo e scopofilia. Un film che racconta la vita non di «just some blonde», ma di un essere umano mitologizzato prima ancora di morire, e di conseguenza obbligato a una tortura che traccia una parabola discendente – dove dal nulla iniziale si tocca il cielo per diventare star, finendo però col cadere daccapo in un crepaccio di solitudine: dalla nascita alla morte. Leggi l’articolo completo di Pietro Bocca […]
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