
Funny Games – Click, stop e rewind
La rappresentazione e lo studio dell’autoriflessione mediale hanno sempre occupato una posizione di privilegio nella pala d’altare della tradizione cinematografica; il processo realizzato per immagini dell’introspezione teorica, retorica, morale e politica del medium-cinema ricorre con persistenza sull’asse diacronico della produzione filmografica, trovando modo di evolversi concettualmente di decennio in decennio. Tracciarne una parabola del tutto esaustiva richiederebbe un’estensione del discorso che travalicherebbe la dimensione marginale di un semplice approfondimento: ci limitiamo, quindi, a delinearne i contorni nella riflessione metadiscorsiva di Funny Games (Haneke, 1997, versione austriaca), in occasione del 25esimo anniversario dalla sua uscita in sala, alternando l’analisi testuale a quella meta-testuale.

Ripresa in plongée, musica classica: un’automobile attraversa strade circondate dalla vegetazione. Nonostante la distanza imposta dall’inquadratura, possiamo ascoltare i dialoghi del conducente e dei passeggeri. Sono una famiglia; stanno facendo un gioco. Il gioco consiste nell’indovinare il nome degli esecutori, dei compositori e dei brani che stanno ascoltando. Mentre il gioco prosegue ci avviciniamo progressivamente all’automobile, di inquadratura in inquadratura, finché un’oggettiva posizionata sul parabrezza ci consente di attribuire volti e ruoli sociali alle voci che abbiamo seguito fino a quel momento: ci vengono dunque presentati Anna (Susanne Lothar), Georg (Ulrich Mühe) e il piccolo Georgi (Stefan Clapczynski) – il quadro di una spensierata famiglia borghese, che viene però subito corrotto dall’intromissione sullo schermo dei cubitali titoli di testa, colore rosso-sangue, accompagnati dal metal-jazzcore di Bonehead dei Naked City.
L’anticipazione delle dinamiche del conflitto, così come di alcune tematiche che troveranno ampio spazio nel corso del film (la dimensione ludica in primis) è evidente: il salto apparentemente immotivato dalla dolcezza del Care belve di Händel – interpretato da Beniamino Gigli – alla violenza del sassofono di John Zorn, riassume in maniera metonimica l’intera linea degli eventi del film.

Dal momento in cui la famiglia si stabilisce all’interno della residenza estiva sul lago, Haneke inizia a dialogare con lo spettatore su piani dialetticamente intrecciati. Alla perturbante costruzione dell’intreccio – che, dall’incontro di Anna con Peter (Frank Giering) e di Georg con Paul (Arno Frisch), degenera con rapidità – si accostano dei chiari impulsi auto-riflessivi, sviluppati in maniera esplicita attraverso espedienti narrativi e di regia: a venire sottolineata con particolare attenzione è la componente di responsabilità della dinamica spettatoriale – vale a dire il legame morale che si instaura tra la perversione scopofiliaca dello spettatore e la rappresentazione dell’azione sullo schermo.
Haneke sfrutta alcuni stilemi del sottogenere americano della home invasion per realizzare uno spettacolo tra quattro pareti; un kammerspiel della violenza psicofisica, motivato unicamente dalla presenza dello spettatore che vi assiste e dal dialogo che questo instaura con i torturatori. Quando Anna constata il malfunzionamento dell’orologio e, poco dopo, si irrita per la “sbadataggine” di Peter che porta a far cadere il telefono nel lavandino, non si tratta di una semplice motivazione dell’impossibilità futura di chiedere aiuto – bensì della creazione delle condizioni d’esistenza che permettono la fruizione di un film in una sala cinematografica. Telefono spento e perdita della cognizione del tempo: una sospensione della vita dei personaggi, con l’obiettivo intrinseco di spettacolarizzarla.
Realizzate le premesse necessarie alla “entrata in sala”, Paul e Peter – emissari delle azioni imposte dal regista e, in seguito alla mediazione dello schermo, di quelle imposte (d)allo spettatore voyeur – iniziano a comportarsi come se percepissero la materia stessa della pellicola in scorrimento, dando luogo a un violento rovesciamento narrativo e contrapponendo all’apparente tragicità degli eventi da loro imposti un registro comico, propenso al dialogo diretto con lo spettatore.

Tom e Jerry, Beavis e Butt-Head, Peter e Paul: la ricombinazione onomastica che i due torturatori evangelici mettono in atto a più riprese – utilizzando riferimenti comici intermediali – contribuisce a mantenere l’effetto di straniamento ludico. Seduti sul divano del salotto borghese, i clown-torturatori instaurano un “regime del gioco” che non è lontano dalle logiche spettacolari degli odierni reality show: la differenza consiste nel completo abbattimento delle distanze tra soggetto e oggetto della visione, reso possibile dai ripetuti sguardi in macchina di Paul e dalla compartecipazione materiale alla quale lo spettatore viene invitato. D’altra parte, la scommessa sulla vita o morte dei membri della famiglia arrangiata da Peter e Paul viene stipulata direttamente col pubblico, dando da lì il via alla serie di funny games che hanno luogo soltanto per il piacere di chi guarda.
Ne consegue che l’intervento della violenza sia spesso motivato dal tentativo dei torturati di sottrarsi alla logica spettatoriale del gioco, e che sia perlopiù relegata fuoricampo. I tre omicidi non vengono mostrati direttamente, ricollegandosi così al concetto di “negazione della visione” dello spettatore sul quale si fonda buona parte della filmografia del regista austriaco.

Da sinistra (di fronte): Arno Frisch, Frank Giering
Haneke, dunque, concede allo spettatore un atteggiamento voyeuristico ma non vuole insistere sulla feticizzazione dell’atto violento in quanto tale: il regista mostra gli effetti psico-patologici che la violenza da rêverie assassina di Peter e Paul ottiene su chi è (momentaneamente) sopravvissuto al gioco mortale – escludendo la rappresentazione diretta dell’atto.
Prima ancora che si giunga ad un punto di non ritorno, Haneke concede allo spettatore di tirarsi indietro: nel corso del “gioco del sacco”, durante il quale Anna deve spogliarsi di fronte ai torturatori e al figlio incappucciato, un’oggettiva diversa dalle altre mostra Georg che mormora: «La smetta, la prego». Il posizionamento della macchina da presa, quasi perpendicolare rispetto al volto dell’attore, allinea lo sguardo di Georg con quello dello spettatore e li fa quasi incontrare; una richiesta di aiuto indirizzata direttamente allo spettatore, speculare alla preghiera a Dio – trasformata a sua volta in gioco da Peter e Paul – recitata da Anna. Si tratta però di tentativi inutili di salvarsi dalla carneficina, data l’evidente superiorità del medium-cinema sulla realtà/finzione diegetica – che ha valore di verità, come sottolinea Paul nel dialogo in barca con Peter, ma che è necessariamente subordinata a chi utilizza e manipola il dispositivo mediale.
Ne è una conferma la sequenza in cui Anna riesce a sparare a Peter, lasciandolo riverso nel suo sangue sotto gli occhi di Paul, il quale afferra un telecomando e con un click riavvolge il nastro degli eventi: oltre ad essere l’unica scena in cui la violenza è mostrata in modo diretto, si tratta della massima espressione di manipolazione del medium – e della definitiva condanna dei personaggi. Come direbbero i mediologi Bolter e Grusin, il medium diventa definitivamente «opaco» e mette in mostra la sua consistenza.

La reazione scandalizzata alla provocazione di questo film da parte degli spettatori del 50esimo Festival di Cannes – dove il film era stato presentato – e la loro uscita dalla sala, a ben pensarci, non sono bastate a mettere in salvo i protagonisti; per de-responsabilizzarsi rispetto alla visione di Funny Games non è sufficiente allontanarsi dallo schermo, perché Peter e Paul nella scena finale trovano già una nuova famiglia dalla quale “farsi ospitare”. Il ciclo della ripetizione di un nastro che si avvolge e riavvolge ad infinitum è ormai in moto, al punto da duplicarsi a distanza di 10 anni in occasione del remake shot-for-shot girato dallo stesso Haneke negli Stati Uniti – con Michael Pitt, Naomi Watts, Tim Roth e Brady Corbet. Click, stop, rewind – si comincia da capo: giochiamo.
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[…] un effetto che in superficie appare simile a quello che Michael Haneke voleva ottenere con Funny Games, per quanto meno sobrio: due tipi diversi di violenza, certo, ma entrambi volutamente ripugnanti. […]