
Il cinema di Michael Haneke – Alienazione, media e violenza
Michael Haneke è uno dei registi più controversi e raffinati degli ultimi decenni di cinema europeo. I suoi film, all’apparenza freddi e cerebrali, sono capaci di restituire uno sguardo tagliente e definitivo sulle abitudini umane e sociali. Fin da Il Settimo Continente (1989), primo capitolo della sua Trilogia della Glaciazione, il cineasta austriaco ha scelto la famiglia borghese come soggetto principale della sua opera, narrandone gli aspetti più desolanti: l’incomunicabilità, l’alienazione della routine e la nevrosi consumistica.

Sono ritratti realistici e spietati, comunicati tanto nella storia quanto nelle scelte formali adottate nella narrazione. Ad esempio, quella che Haneke identifica come Objectification of life viene veicolata da una moltitudine di dettagli oggettuali ricorrenti in molte sue opere (Il Settimo Continente, 71 Frammenti di una cronologia del caso, Funny Games) dai quali i corpi umani vengono esclusi o frammentati, conferendo il ruolo di centralità all’oggetto domestico, come se fosse l’inanimato a muovere la mano che lo regge, invece che il contrario. L’autorialità di Michael Haneke si declina proprio in questa continua dialettica tra contenuto narrativo e costrutto linguistico, che porta la polpa della storia a dipanarsi nella macchina da presa.
L’atmosfera familiare della media borghesia è dunque il contesto prediletto per la rappresentazione degli istinti nichilistici dell’individuo, declinati non solo nella sottrazione del dato corporeo dall’inquadratura, ma anche attraverso le interpretazioni composte ed essenziali, che comunicano tutta la repressione sessuale e psicologica dei personaggi (ad esempio, in capolavori come La Pianista e Il Nastro Bianco). Questo spazio domestico routinario altamente riconoscibile per lo spettatore medio diviene il teatro perfetto per l’inserimento di un graffio irreparabile, termine ultimo dell’alienazione: il gesto violento. Quella della violenza mortale, in alcuni casi auto-inflitta, è infatti una nota ricorrente e pervasiva nella sua filmografia.

Spesso relegata ad un fuoricampo crudele, la violenza e la morte irrompono nella placida nenia della routine casalinga senza annunciarsi, quasi fossero la fine ovvia di ogni vicenda. Se nell’emblematica sequenza finale de Il Settimo Continente la famiglia protagonista, dopo aver distrutto tutti i propri beni materiali, si dava alla morte davanti ad uno schermo televisivo acceso, la conclusione del recente Happy End (2017), vede il personaggio di Jean Luis Trintignant tentare il suicidio, incastonato nel reframe verticale del cellulare della nipote che lo riprende, immobile.
Gli schermi mediali – poco importa che appartengano ad un cellulare, un computer, una videocamera di sorveglianza oppure a un televisore – sono infatti i veri tiranni di quell’ambiente domestico alienato che fa da sfondo ai film di Haneke: interlocutori dispotici e rutilanti che raffreddano il focolare, si sostituiscono alle finestre sul mondo e rendono la casa un non luogo, uno spazio privo di relazione e intimità (ad esempio, come nella casa spiata di Niente da Nascondere). Non è un caso se quasi tutte le scene di violenza, nelle sue pellicole, sono attuate in presenza o addirittura veicolate da uno schermo nello schermo.

Relativamente a questa connessione concettuale e narrativa tra ambiente domestico, morte e medialità, ricorrente nel cinema di Michael Haneke, risulta emblematica l’inquadratura di Funny Games (1997), nella quale, appena dopo la morte del piccolo Georgie, avvenuta fuoricampo, vediamo lo schermo televisivo del salotto imbrattato del sangue della vittima, mentre viene trasmessa una gara automobilistica. Proprio Funny Games rappresenta il vertice cinematografico della riflessione sulla correlazione tra mezzo video e violenza. Due giovani sadici vestiti in bianco irrompono nella tranquillità vacanziera di una famiglia e iniziano a seviziarla, senza addurre spiegazioni e senza che lo spettatore possa concepire il pregresso o il sotto-testo dei due intrusi. Più la crudele operazione di annientamento procede, più la narrazione esce da sé stessa e riflette sul suo essere finzione in modo analitico.
Il climax di questa analisi irrompe nella sequenza in cui l’aguzzino Paul (interpretato da Arno Firsch, protagonista di Benny’s Video), utilizza il telecomando intradiegetico, per compiere un’azione di rewind sulla narrazione tutta, riportando così in vita il suo compare Peter. Questa sequenza, così come l’ammiccante sguardo in macchina di Paul, che in più occasioni rompe la quarta parete interpellando il pubblico come complice divertito, riassume al meglio il carattere analitico, meta-testuale e dialogante di tutta il film. Funny Games è infatti un’opera di responsabilizzazione verso un pubblico che non può mai abbandonarsi alla mera ricezione passiva. Oltre a ciò, è evidente come Funny Games sia l’approdo principale della lunga riflessione del cinema di Michael Haneke relativa al carattere anestetizzante che assume la violenza più reale se mediata da un qualsiasi schermo.

Nel 2007, Haneke compirà l’inedita impresa di realizzare un remake shot by shot di Funny Games, questa volta con attori americani e una distribuzione destinata ad un pubblico più vasto. Proprio come un vero e proprio reenactment, oltre ad aprire un varco concettuale sul tema dell’autorialità, Funny Games U.S. (2007) è l’occasione per riflettere sull’indistinguibilità tra originale e sua copia, su realtà e sua rappresentazione, ammiccando al delitto perfetto teorizzato da Jean Baudrillard.
Proprio il saggista francese viene citato verso la conclusione del doppio film, in un dialogo straniato tra i due aguzzini sulla barca: «Ma la finzione è vera» – «Perché?» – «La si vede nel film giusto? Bè, allora è altrettanto vera come la realtà che comunque si vede». Lo spettatore assiste al dipanarsi delle immagini pressoché identiche del remake e prova lo straniamento perturbante di chi vede un soggetto differire da sé stesso, uscire dai propri bordi. Analogamente, si trova impedito all’immersione nel carattere finzionale dell’opera, richiamato ad un ruolo di testimone attivo e addirittura complice carnefice. Deve essere lo stesso straniamento provato dal protagonista di Benny’s Video, nel riguardare la registrazione video del suo omicidio ai danni della coetanea: una morte mediata, ma altrettanto vera.

La riflessione che Michael Haneke compie sul legame tra ambiente familiare-domestico e male, si declinerà anche nel suo cinema più esistenziale e psicologico: ad esempio, ne La Pianista (2001), Il Tempo dei Lupi (2003), Il Nastro Bianco (2009) e Amour (2012), a essere prese in causa sono soprattutto la repressione dell’io interiore e l’inspiegabile origine del male inteso come malattia o evento esterno. Sono opere caratterizzate da un rigore formale algido e severo, nelle quali ai reframe attuati sull’inquadratura degli schermi in campo, si sostituiscono quelli delle porte e delle soglie domestiche silenziose.
In oltre trent’anni di carriera, Michael Haneke ha influenzato generazioni di colleghi autori in giro per il mondo (si pensi a Yorgos Lanthimos o a Ruben Østlund), mettendo in scena, senza enfasi o patetismi, la violenza sotterranea, insita nell’abitudinarietà della vita moderna. Una violenza catturata con uno sguardo distante e fisso, pronta ad erompere senza assoluzione dai suoi personaggi fragili e laconici, fino ad uscire dai confini della finzione, dai bordi dello schermo. Con i suoi ritratti spietati e credibili della società, non ha mai smesso di pungolare lo spettatore, chiamandolo ad un atto di responsabilità dello sguardo, non preoccupandosi di compromettere la partecipazione emotiva all’opera. Anche per questo, Haneke è l’esempio di ciò che un artista deve essere oggi: un temerario che vive nel mondo senza aver paura di spostare la soglie del visibile e del raccontabile oltre l’orizzonte dell’ovvio.
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