
Il cinema di Martin McDonagh – La sottile linea tra commedia e crudeltà
“Chiunque dubiti che la penna sia più forte della spada non ha avuto il piacere di scoprire i lavori di Martin McDonagh”: queste sono le parole utilizzate dall’attrice Amy Schumer per presentare il regista, sceneggiatore e drammaturgo britannico Martin McDonagh, in occasione di un’intervista su Interview nell’ottobre 2017. È un’espressione spesso usata a sproposito, ma si tratta forse della descrizione più appropriata per il suo modo di approcciarsi al cinema e al teatro. McDonagh ha sempre percorso la sottile linea tra commedia e crudeltà con dialoghi che possono ferire, provocare, divertire e forse anche offendere nel senso più stretto del termine. Di conseguenza, quando i suoi film sono arrivati a un pubblico più ampio come nel caso di Three Billboards Outside Ebbing, Missouri (disponibile in streaming su Star), il regista è diventato immediatamente oggetto di discussione e controversie. Altri si sarebbero piegati all’autocensura, ma lui ha preferito mantenere la sua voce nichilistica e speranzosa che lo ha sempre contraddistinto.
All’inizio ebbe difficoltà a farsi accettare: in un’intervista a Irish Times racconta che, di fronte ai numerosi rifiuti, non poté fare altro che continuare a scrivere con la stessa persistenza “di chi compra biglietti della lotteria sperando di vincere”. La sua determinazione lo portò anche ad approcciarsi a forme d’arte per cui, all’epoca, nutriva un certo disprezzo come il teatro. Nell’arco di dieci mesi, tra 1994 e 1995, scrisse la trilogia di Leenane (composta da The Beauty Queen of Leenane, A Skull in Connemara e The Lonesome West) e la inviò a diversi teatri in Inghilterra e in Irlanda. Dopo un’anteprima a Galway, i suoi spettacoli furono accolti in Inghilterra dal plauso della critica e del pubblico. A soli 27 anni McDonagh divenne il primo drammaturgo dai tempi di Shakespeare ad avere quattro spettacoli rappresentati in contemporanea nel West End londinese.
Dopo il successo di The Cripple of Inishmaan e The Lieutenant of Inishmore (avrebbero dovuto comporre la trilogia delle Aran Islands insieme a Banshees of Inisheer, ma quest’ultimo non fu mai prodotto o pubblicato), McDonagh decise di avvicinarsi al cinema con un esperimento: un cortometraggio facile da realizzare con collaboratori fidati, che potesse fungere come suo biglietto da visita. Il risultato, Six Shooter (2014), lo portò a vincere l’Oscar come Miglior Cortometraggio nel 2006, attirando di conseguenza l’attenzione di Focus Features che volle produrre il suo primo lungometraggio.

Per In Bruges (2008), McDonagh decise di allontanarsi dall’Irlanda, scenario della quasi totalità delle sue opere fino a quel momento, per spostarsi in Belgio e nello specifico nella città di Bruges. Ad interpretare i due sicari protagonisti vennero chiamati due dei suoi futuri collaboratori più frequenti: Brendan Gleeson, già protagonista del cortometraggio, e Colin Farrell, che parteciperà anche a Seven Psychopaths (2012). Scelto come film d’apertura del Sundance Film Festival del 2008, venne definito da Roger Ebert come “una commedia incessantemente sorprendente, molto oscura e umana con un intreccio che non può essere previsto ma solo gustato”.
Dopo questo breve periodo dedicato esclusivamente al cinema, ricominciò a destreggiarsi tra cinepresa e palcoscenico, passando così dallo Schoenfeld Theatre di Broadway per A Beheading in Spokane al set di Seven Psychopaths nel giro di pochi mesi. Nonostante il successo di critica e di pubblico dei suoi lavori, l’effettiva consacrazione mainstream arrivò solo nel 2017 con Three Billboards Outside Ebbing, Missouri, prodotto e distribuito da Fox Searchlight Pictures. Grazie alle anteprime alla Mostra del Cinema di Venezia e al Toronto International Film Festival (dove vinse anche il People’s Choice Award), riuscì ad ottenere la spinta necessaria per ottenere sette nomination agli Oscar e a vincerne due: miglior attrice protagonista per Frances McDormand e miglior attore non protagonista per Sam Rockwell.

Basta osservare questa panoramica del suo percorso per capire quanto sia difficile definire in modo univoco Martin McDonagh. Si potrebbe parlare di un enfant terrible per il suo approccio quasi punk, soprattutto al teatro. Non è mai riuscito ad apprezzare appieno quell’ambiente soprattutto a causa dell’elitismo e della natura estremamente tradizionalista. Non ha mai cercato di censurarsi per adattarsi al gusto snob del pubblico medio di West End o Broadway. La violenza e l’amoralità che i suoi detrattori non mancano mai di sottolineare sono elementi inscindibili dalla sua visione del mondo. Quando, ad esempio, in The Hangmen, McDonagh spinge il pubblico a ridere davanti alla morte di un uomo innocente, non è mai per una mancanza di rispetto. La sua violenza non è fine a se stessa, ma possiede sempre una dimensione morale che la rende necessaria. Come spiega in un’intervista a Irish Times, “non direi che questa violenza sia sensazionalistica, è semplicemente veritiera per quella storia […] Le battute per me sono importanti quanto la violenza e la tristezza”.
Nonostante questo desiderio di movimentare l’ambiente teatrale, McDonagh riconosce che il vero fulcro del suo interesse è stato e sarà sempre il cinema. Già nel 1998, agli inizi della sua carriera come drammaturgo, spiegava sulle pagine di BOMB che “ci possono essere centinaia di versioni di uno spettacolo e alcune potranno essere buone, altre bellissime e altre ancora così così; con un film invece, se lo fai bene, è così per sempre. Quella consapevolezza che quell’opera d’arte sarà sempre lì ad ispirare qualcuno […] è bellissima e vorrei essere capace di realizzare qualcosa di simile”. Per portare sullo schermo la versione più autentica delle sue storie, ha sempre preferito occuparsi in prima persona della regia (invece a teatro non ha mai sentito il bisogno di dirigere) e rigettare il modello narrativo proposto da Robert McKee in Story o qualsiasi altro limite creativo. Sul Berlin Film Journal dichiara ad esempio di non voler lavorare con attori o studios che mettono in discussione la sua visione sul set: “Sono molto pignolo quando si tratta di mantenere intatta la sceneggiatura durante la produzione. Mi piacciono gli attori e sono molto aperto alle loro idee, ma non sono aperto a cambiare ciò che ho scritto. Quando riesco a far produrre una delle mie sceneggiature, di solito significa che ci lavoro sopra da sette anni e che ogni frase è stata scelta con attenzione”.

A livello tematico, McDonagh è attirato dagli aspetti più cupi dello scibile umano osservati però con uno sguardo tragicomico. Nulla sembra affascinarlo di più di quello che il Professor Eamonn Jordan definisce “l’inspiegabile discrepanza dell’idea di giustizia”. La maggior parte dei protagonisti di McDonagh sono criminali, che agiscono secondo un proprio codice morale. Ciò è particolarmente evidente in In Bruges, dove il sicario Ray non riesce a perdonarsi dopo aver ucciso per sbaglio un bambino, nonostante la morte rappresenti il suo mestiere. McDonagh però non permette mai al pubblico di dimenticare chi sono i suoi personaggi: se l’empatia è concessa, l’intreccio non lascia mai i colpevoli impuniti. Lo stesso vale per Dixon, il poliziotto interpretato da Sam Rockwell in Three Billboards Outside Ebbing, Missouri. Molti pensano che la sceneggiatura di McDonagh cerchi di redimere un personaggio razzista e sessista, ma secondo l’autore “è più o meno la stessa persona alla fine, ha solo visto che deve cambiare”. I film di McDonagh son difficili e deliberatamente ambigui per rispecchiare il modo in cui viviamo, ma il loro intento è quello di spingere il pubblico a pensare in modo più critico attraverso la speranza e l’umanità che si nascondono nella sottotraccia narrativa.
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[…] in cui si specchiano le contraddizioni della vita. È a partire da questo assunto fondamentale che Martin McDonagh, già acclamato a Venezia74 per Three Billboards Outside Ebbing, Missouri, sviluppa la trama e le […]