
L’immagine si vendica di chi non la osserva – Il cinema secondo Roberto Calasso | Parte 2
Come abbiamo visto nella prima parte di questo excursus, il cinema affiorava a tratti, e a volte in maniera davvero sorprendente, nell’opera di Roberto Calasso, scrittore ed editore italiano scomparso a luglio dello scorso anno che ha dedicato tutta la sua vita a una torrenziale ricerca sul rapporto tra i riti e le narrazioni. Per questo motivo è stato al tempo stesso sorprendente e prevedibile vedere Calasso pubblicare Allucinazioni Americane, raffinatissima cavalcata culturale che prende le mosse da La finestra sul cortile e La donna che visse due volte di Alfred Hitchcock, noto anche con il suo titolo originale di Vertigo.
Ancora più sorprendente è il fatto che Allucinazioni Americane, uscito a maggio 2021, sia stato l’ultimo libro pubblicato in vita da Calasso: lo scrittore aveva poi predisposto una serie di volumi per un’uscita volutamente postuma. I primi due, Bobi e Memé Scianca, sono usciti il giorno dopo la sua morte, con una puntualità impressionante, e altri sono tutt’ora in corso di pubblicazione – tutti per Adelphi, la casa editrice da lui di fatto co-fondata nei primi anni sessanta.

L’interesse di Calasso per Hitchcock aveva radici antiche, e in realtà già ne La follia che viene dalle Ninfe, una raccolta di saggi brevi datata 2005, accanto agli interventi su Lolita e sul divismo-catasterismo di cui abbiamo già parlato figurava Il teatro di posa nella mente, che a tutti gli effetti si può definire una variante embrionale di Allucinazioni Americane, un libro in cui, nonostante la sua brevità, si condensano molti dei temi-cardine dell’autore de Le nozze di Cadmo e di Armonia. E infatti La finestra sul cortile e La donna che visse due volte “sembrano rivelare strati profondi dell’ispirazione dell’autore, lasciando intravedere anche l’autobiografia di una generazione per la quale il cinema è stato – e resta, nella memoria – ossessione e fantasma”, faceva giustamente notare Emiliano Morreale nella sua breve recensione del volume apparsa per Il Venerdì.
“Hitchcock ha voluto rendere ben chiaro, fin dalla prima scena, che La finestra sul cortile e Vertigo sono due film gemelli”, anzi, “l’uno l’inverso dell’altro”, accomunati innanzitutto dalla presenza in entrambi di James Stewart come protagonista nei panni rispettivamente di un fotoreporter e di un detective, in ogni caso “un mestiere inquisitivo”. Da questa premessa si dipana la trattazione di Allucinazioni Americane. Nella prima parte, gioca un ruolo chiave il termine latino figmentum, che indica l’immagine mentale, “l’entità più inafferrabile” a detta di Calasso: tanto più che “il regno del figmentum presuppone una sovranità illimitata, quella della mente”, ma anche un confine claustrofobico, perché il figmentum “è fatto soltanto della mente”. Lo sa bene Scottie, il protagonista di Vertigo, con le sue ossessioni “erotiche e metafisiche” a un tempo. “Vertigo è la storia della nascita, delle avventure e della morte del figmentum”, argomenta Calasso, in due direzioni opposte però: “una volta il figmentum viene usato come arma per uccidere; la seconda volta, il figmentum” – spoiler alert – “è costretto a uccidersi”.

“Mi è capitato non poche volte di osservare che i film di Hitchcock tendono a diventare più belli, quando si rivedono”. Da un certo punto in poi, e nella maniera più impercettibile, Allucinazioni Americane cessa di diventare un saggio sul cinema, o su due film, di Hitchcock, e si trasforma in un’inguaribile cavalcata tra i più remoti sistemi di pensiero della cultura umana. Alla base di questo crescente fascino del cinema di Hitchcock ci può essere, a detta di Calasso, “uno stupore non solo estetico, ma anche speculativo – o meglio: uno stupore estetico perché speculativo”, e nella filosofia del maestro del thriller La finestra sul cortile e Vertigo si distinguono “perché, all’usuale intreccio di delizie e terrori, sovrappongono una dimensione metafisica” tout court.
Inseguendo un’affermazione occasionale di Hitchcock, che una sola volta aveva definito La finestra sul cortile come un “processo totalmente mentale, condotto attraverso mezzi visivi”, Calasso ha gioco facile a legare la metafisica hitchockiana ad alcune delle intuizioni basilari delle Upaniṣad indiane, andando al cuore dell’immaginario vedico: “Esiste sempre un metasguardo sovrapponibile allo sguardo, ma il passo decisivo è il primo: quello con cui il Sé si distacca dall’Io, il fotografo che guarda dall’assassino che viene guardato”. Nel film di Hitchcock non meno che nei testi sapienziali indiani, si gioca la partita eterna tra atman e aham, tra Sé ed Io – in un conflitto di vicinanza che, millenni prima di Jung, i sapienti vedici avevano incastonato nell’immagine di due uccelli appollaiati al ramo, uno che mangia una bacca, uno che scruta l’altro mangiare in un voyeurismo portentoso. Lo stesso voyeurismo dispiegato da James Stewart sul cortile, del resto. Lo stesso voyeurismo di cui gode lo spettatore del film di Hitchcock, a un altro livello ancora.

E non è finita. Dopo alcune digressioni, che ricordano le proiezioni alla basilica di Massenzio e il cinema di Max Ophüls, Calasso si rivolge bruscamente a uno dei suoi massimi feticci culturali: Franz Kafka. “Se c’è un romanzo che permette di capire che cos’è il cinema, è Il disperso. L’occhio di Karl Rossman è già l’obiettivo della macchina da presa – e l’America che gli offre è una visione allucinatoria di tutto ciò che il cinema è diventato sino a oggi”. Il disperso, meglio noto come America o anche con il titolo del suo primo capitolo Il fuochista, è uno dei tre romanzi di Kafka, incentrato su un sedicenne praghese costretto dai suoi ad andare a vivere in America a seguito di uno scandalo sessuale. Con l’Adelphi Calasso aveva pubblicato alcune delle edizioni italiane più belli degli scritti di Kafka, oltre ad avergli personalmente dedicato un voluminoso libro, K., datato 2003 – ma nell’ultima parte di Allucinazioni Americane, è come se Calasso volesse aggiungere qualcosa, alle riflessioni già fatte sul kafkiano.
A cosa si deve la contiguità tra Kafka e il cinema? “Cinema significa compresenza di allucinazione e iperrealtà”, spiega presto Calasso, e “se c’è un romanzo dove quel modo diverso e soverchiante di percepire si presenta sulla pagina è appunto Il disperso”. E se Allucinazioni Americane si chiude con diversi aneddoti e riflessioni sul romanzo di Kafka e sul reportage di Arthur Holitscher che lo aveva ispirato, nelle ultime pagine Calasso fa in tempo a dare una sua personalissima definizione della settima arte: “il cinema è materiale metafisico per eccellenza”, vi si legge, affine alla rêverie ottocentesca su cui si era dilungato ne La Folie Baudelaire, affine al rito per certi versi, affine, soprattutto, alla “condizione di una mente che, in solitudine, è intenta ad allucinare”.

La grande lezione che Calasso dà nelle Allucinazioni Americane – titolo volutamente calvinianeggiante, per inciso – consiste nei principi di una critica mimetica. Già ci aveva pensato il suo amico Carmelo Bene a sancire che “ormai fare dell’arte e fare della critica sono la stessa cosa” – e Oscar Wilde un secolo prima di lui. Ma in Allucinazioni Americane Calasso estremizza quest’ambizione paradossale di una critica artistica, e crea un vero e proprio pezzo di stile in cui la forma e la struttura del libro ricalca l’andamento labirintico del dittico hitchockiano. Improvvisandosi critico cinematografico a ottant’anni, per una prima che è anche un’ultima volta, Calasso applica al cinema di Hitchcock lo stesso movimento che, quindici anni prima, aveva dedicato a Baudelaire e alla temperie culturale del suo tempo: muovendosi tra i due film come se fossero due vere e proprie architetture di pensiero e di forme, Calasso allarga improvvisamente lo sguardo a tematiche lontanissime eppure tangenziali, rispetto ai grandi temi de La donna che visse due volte o della Finestra sul Cortile.
I Veda, o anche l’America di Kafka, sembrano appartenere a coordinate di pensiero decisamente distanti al cinema hitchcockiano, e invece Calasso dimostra la loro stretta contiguità; per non parlare delle pagine dedicate ai fosfeni, “esseri che occupano il campo visivo”, scintille e lampi di luce, a volte colorati che rientrano all’interno del campo visivo, secondo la loro definizione scientifica. Con questo intervento sui fosfeni peraltro Calasso porta a termine un suo percorso di intermittente attenzione nei confronti delle tesi più affascinanti della neurologia contemporanea che aveva già trovato spazio nei precedenti La rovina di Kasch, Il Cacciatore Celeste e L’Innominabile Attuale, oltre che nella pubblicazione per Adelphi delle opere di Oliver Sacks e di diversi altri libri inclusi nella prestigiosa Biblioteca Scientifica.

Ma alcune delle pagine più memorabili dell’ultimo libro pubblicato in vita da Calasso restano quelle in cui sviscera il significato del cortile di Rear Window. La prima parte dell’analisi è classica, anzi, dimostrando insospettabili conoscenze da cinéphile, Calasso va a ripescare alcune pagine dei Cahiers du Cinéma in cui dei giovani Rohmer e Chabrol elencavano – a detta di Calasso, fin troppo pedissequamente – i sistemi metafisici a cui il film di Hitchcock poteva fare riferimento, dalla Caverna platonica fino ai gianseniti. Ma se nel più metacinematografico dei thriller hithockiani è una sensazione di straniante iperrealtà ad avvolgere tutti gli appartamenti che si affacciano sul cortile, viene spontaneo chiedersi dov’è andato a finire il mondo, quello esterno, quello vero – tanto più che le inquadrature più larghe lo lasciano anche intravedere. Il mondo, “la mente può provvedere a tagliarlo fuori, ma non del tutto. Rimane sempre almeno uno spicchio, che ferisce e permette la fuga. Per questo, su un lato del cortile, si apre un vicolo, che dà sulla strada. La strada è il mondo come è”, non quegli squarci quotidiani e iperreali che ogni appartamento concede, “ma nel film non si farà mai notare se non per pochi istanti. Tutto il resto si svolge all’interno di una mente, fra l’occhio del fotografo e i suoi fantasmi. Quell’occhio è sovrano”.
Quest’elemento dell’occhio è la spia di un’altra corrente carsica che attraversa il libro di Calasso e che, a ben vedere, potrebbe essere estesa anche ad altri registi: una riflessione sul rapporto tra vista e pensiero, e quindi anche tra cinema e filosofia, potenzialmente. Gli occhi hanno visto la vista: uno sguardo, diceva Carmelo Bene in Nostra Signora dei Turchi, definendo l’estasi – e alcuni dei maggiori registi della storia del cinema, a cominciare da Antonioni, Kubrick e Wenders, hanno impostato tutto il loro cinema nella forma di un’indagine sulla vista. Ma Hitchcock era arrivato prima di tutti loro. La finestra sul cortile e Vertigo sono così, secondo la definizione di Calasso, “due grandi celebrazioni dell’occhio”: l’occhio artificiale nel primo dei due film, dal momento che il personaggio di Stewart si serve costantemente di un binocolo per scrutare gli appartamenti adiacenti, l’occhio naturale nel secondo, rappresentato sin dai titoli di testa del film come “una spirale con un buco nero al centro, che si trasforma incessantemente. Questo vale anche per il cinema in sé, occhio sovrapposto a quello di chi lo guarda. Ma Hitchcock per due volte ha voluto renderlo il perno di tutto un film, senza il quale nulla accade”. I greci utilizzavano lo stesso verbo, theorein, per indicare sia il “guardare”, con una sfumatura specificatamente spettatoriale, che il “pensare” – in un’ambivalenza semantica che l’italiano contemplare per certi versi preserva ancora. Il cinema d’autore, se veramente è tale, risulta essere, agli occhi e a beneficio dello spettatore, una restaurazione del theorein greco.

Un ultimo paragrafo consente di cogliere l’ambizione critica sottesa al discorso di Calasso, che partiva dalla gemellarità de La finestra sul cortile e Vertigo per arrivare a disperdersi nelle molteplici vicende creative ed editoriali dell’America di Kafka. “Aggiungerei un’ultima glossa”, si legge in un punto di Allucinazioni Americane, che non è necessariamente il suo finale. “La finestra sul cortile è l’Occidente stesso, nella sua forma più ammaliante e irriducibile. Ma forse, per capire sé stesso, l’Occidente ha bisogno di categorie nate altrove”. Sul finire di Allucinazioni Americane, Calasso incastona poche frasi che risultano di fatto epifaniche nei confronti del suo intero movimento di pensiero, che si volgono ad abbracciare la sua opera omnia, sin da quello sfrenato Impuro folle apparso nel 1974 e dedicato al presidente Schreber – ma l’opus calassiano, nato dal monologo di un paranoide schizofrenico, non avrebbe tardato a disseminarsi sugli argomenti più vari, con una specifica attenzione, tra Ka del 1996 e L’Ardore del 2010, nei confronti delle mitologie indiane.
L’omnicomprensività è la caratteristica più impressionante della sua produzione da autore – la mole degli argomenti trattati, e l’abilità di farli rientrare in una visione, organica e per certi versi olistica, della cultura umana. Ecco allora che il cinema, già apparso insistentemente ne La Follia che viene dalle Ninfe, pretendeva a sua volta una trattazione monografica – per quanto monografico potesse essere Calasso, ça va sans dire. O come altrimenti scriveva Calasso stesso ne La rovina di Kasch, suo secondo libro ed incipit della cosiddetta “Opera Unica”: l’immagine si vendica di chi non la osserva. Per questo, in quel complesso arboreo di riti e di fascinazioni che compone il complesso della sua opera, il cinema non andava dimenticato. Il cinema come una delle ultime propaggini del mito, verrebbe da aggiungere – ma questo, Calasso nitidamente non lo dice.
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