
L’estasi pagana – Aby Warburg tra imagismo e immaginario
È uscito qualche mese fa per Carocci Editore Aby Warburg, uno spazio per il pensiero, un saggio o meglio una raccolta di saggi firmata da Maurizio Ghelardi, tra i massimi esperti di Warburg – e di Jacob Burckhardt – in Italia. In Uno spazio per il pensiero Ghelardi ha raccolto una serie di interventi – articoli accademici, prefazioni espanse, conferenze rielaborate – sulle varie costellazioni del pensiero warburghiano e sulla sua accidentata biografia. Uno spazio per il pensiero non si rivolge certo ai non iniziati, tutto è fuorché un’introduzione a Warburg, e questo è al tempo stesso un limite e un pregio del volume: i suoi undici capitoli sono altrettanti profondissimi affondi nel pensiero di una delle figure intellettuali più indefinibili del Novecento – il che è quanto dire! -, capaci al tempo stesso di approfondire sotto prismi insoliti il pensiero di altre personalità quali Nietzsche, Max Weber, Cassirer, il già citato Burckhardt e lo stesso Giordano Bruno, al quale Warburg dedicò un’accesa attenzione fino a definirlo nel novero dei “martiri dell’eliotropismo” (sic).

Come definire Aby Warburg? La Treccani lo indicizza come uno “storico dell’arte e della cultura”, definendolo “studioso dai vasti interessi che ebbero come fulcro il Rinascimento”; esistenzialmente parlando, Warburg stesso si definì “amburghese di cuore, ebreo di sangue, d’anima fiorentino”. Più prosaicamente, si potrebbe dire che, laddove i rampolli di ricche famiglie o seguono i passi paterni o fanno i rebels without a cause o, nel migliore dei casi, in realtà un corollario del secondo, si improvvisano artisti fuori dagli schemi, Aby Warburg decise di investire una quantità sproporzionata di ricchezze nell’accumulo di una grandiosa biblioteca che ha posto le basi per quello che oggi si chiama Warburg Institute, uno dei più accreditati istituti di ricerca del mondo.
I Warburg erano, e sono tutt’ora, un’importante famiglia di banchieri la cui presenza nella finanza europea risale al 1798, e ancora non si è interrotta. Il giovane Aby rifiutò tanto il mondo dell’alta finanza quanto il rabbinato che suo nonno gli prospettava, e si laureò in Storia dell’arte. Definitivamente fatali gli furono una serie di viaggi e di soggiorni a Firenze, prima, e poi un lungo viaggio negli Stati Uniti d’America, a contatto diretto con gli ultimi “Indiani”. Sulle vicende dell’ultimo tratto della sua vita tanto si è parlato: quando già aveva iniziato a porre le fondamenta del Warburg Institute, Aby fu sopraffatto da una forma di psicosi, che gli bloccò momentaneamente la ricerca erudita; per sei anni fu sottoposto a reiterati ricoveri nel sanatorio svizzero di Kreuzlingen, e del suo caso fu informato lo stesso Sigmund Freud; nel 1923, per dimostrare a sé stesso prima ancora che ai medici di essere sulla via della guarigione, tenne a beneficio degli altri pazienti del sanatorio una conferenza poi pubblicata sotto il titolo de Il rituale del serpente, partendo da episodi e simboli rituali che lui stesso aveva osservato presso gli indiani Pueblo del Nuovo Messico; la pubblicazione in rivista accademica del testo della conferenza venne preceduta dall’avvertenza che essa era stata pronunciata “davanti a un pubblico non specialistico”, un capolavoro di reticenza e sabotaggio dalla grandiosità quasi kafkiana.
Il frutto più fertile del pensiero warburghiano consiste nella fondazione mancata di una lunga serie di discipline, anzi di canoni transdisciplinari; e se Uno spazio per il pensiero di Ghelardi ha un merito, è proprio quello di consentire di passare in rassegna tutte le diverse definizioni che Warburg propose per l’andamento che il suo pensiero andava di anno in anno prendendo, per capire, più in generale, ciò che Warburg può ancora insegnarci. Se, come avverte Ghelardi in uno degli ultimi capitoli della raccolta, il pensiero di Warburg è andato incontro a una pedissequa banalizzazione, per cui “come ci si può definire kantiani o hegeliani senza aver letto Kant o Hegel, si può dire di essere warburghiani senza aver mai letto Warburg”, dal contatto diretto con le pubblicazioni, le lettere e i frammenti di Warburg si può trarre una costellazione di inediti crocevia concettuali che tuttora definirebbero ibridi parzialmente inediti nel pensiero europeo. Dall’iconologia a una nuova accezione di cosmologia, da una “fisica del pensiero” all’astrologica, Warburg fu un instancabile ideatore di discipline che non videro mai una vera e propria fondazione, ma che si cristallizzarono in una miriade di folgoranti frammenti d’autore che ancora attendono di essere, almeno in parte, riscoperte – benché in fatto di iconologia suo degno erede fu Erwin Panofsky. Se vogliamo, e per ragioni diverse, il lascito di Warburg può essere paragonato allo stato di conservazione e di pubblicazione di un altro, incompleto monumento concettuale che si trova nel cuore della cultura italiana del Novecento, La fine del mondo dell’antropologo Ernesto de Martino: un altro esempio di sfrenata ma ponderatissima transdiciplinarietà, frutto di uno studio tanto della letteratura e dell’arte contemporanea quanto dell’etnologia relativa ai popoli più lontani nel tempo e nello spazio.

La transcidiplinarietà è, certamente, una delle maggiori lezioni che Warburg ci può ancora dare. Già ai primi del Novecento, a metà del suo percorso biografico e concettuale, Warburg sintetizzava così il suo cursus pensandi: “da Darwin, attraverso Filippino fino a Botticelli, attraverso Carlyle e Vischer, alle feste e agli Indiani Hopi, e attraverso i Tornabuoni con Ghirlandaio di nuovo alla Ninfa, e tramite Lorenzo il Magnifico a una filologia equilibratrice”. Del resto, che “i veri problemi si prendono gioco di tutti i tradizionali e convenzionali specialismi” lo scrisse una volta anche Ernst Cassirer a Warburg, in uno dei passi più importanti del loro densissimo epistolario: sin dall’inizio del loro rapporto i due pensatori si erano sorpresi nello scoprirsi vicendevolmente impegnati in un’analoga riflessione sul simbolo e sulla cultura in generale, una riflessione vertiginosa e spericolata i cui confini scavalcavano parimenti la filosofia come la psicologia, la storia dell’arte quanto la storiografia in sé e per sé. “Sarebbe sufficiente leggere con maggior acribia e attenzione i suoi scritti editi e inediti”, avverte Ghelardi, “il suo lascito e, almeno in parte, la sua vastissima corrispondenza e i suoi taccuini per comprendere che Warburg non ha mai inteso dar vita a una disciplina specifica, ma ha cercato di ripercorrere, muovendo dai risultati che gli offrivano la psicologia, l’antropologia, la filosofia e la linguistica del suo tempo, l’evoluzione dei meccanismi fondamentali dell’espressione umana che aveva condotto la cultura dall’antropomorfismo al pensiero simbolico”.
In uno specifico tratto di cammino, Warburg ha preceduto di alcuni decenni il percorso poi tracciato da un altro dei più fini pensatori del Novecento, Isaiah Berlin, con la sua autoproclamata storia delle idee. La convinzione profonda di Warburg consisteva nel meccanismo per cui la comparsa di ogni nuova credenza si accompagna a una nuova disposizione psichica, se non a un nuovo universo spirituale tout court: ovvio corollario di ciò è che Warburg non ha mai cercato “una presunta verità storica, bensì il suo valore simbolico”, come annota Ghelardi. Questi si concentra sulle fonti e sui “compagni di viaggio” del pensiero warburghiano, come Cassirer o come Karl Giehlow, ma ci si potrebbe interrogare anche sulle influenze o sulle anticipazioni che Warburg ha avuto nei confronti dei pensatori successivi delle più disparate discipline, Jung in primis, o, per citare due italiani, Roberto Calasso e Carlo Ginzburg.

Lo “spazio per il pensiero” dell’espressione che dà il titolo al volume, e che ricorre più volte nelle pagine di Ghelardi, non è solo e non è tanto il Warburg Institute che, dopo l’avvento del nazismo, venne trasferito da Amburgo a Londra; lo spazio per il pensiero sognato e propugnato da Warburg è quello spazio creato dalla memoria per “costruire consapevolmente una profondità tra presente e passato”, parafrasa Ghelardi, per “accogliere tutto l’impeto della personalità passionale-fobica scossa dai misteri religiosi”, diceva originariamente Warburg. Lontano anni luce dalle convenzioni e dalle sterilità che guidano e impastoiano un pensiero rigidamente accademico, Warburg si è scontrato non meno di Nietzsche con i pericoli che si corrono nel risvegliare i fantasmi che stanno al di là di certi argini del pensiero: “intendevo scrivere una macchina per la scienza, ma questa macchina alla fine mi ha schiacciato: questo è stato il mio destino”, aveva detto una volta poco prima dell’ennesimo ricovero, come testimoniato dal suo amico Peter Schramm. “L’immagine si vendica sempre di chi non la osserva”, scrisse una volta Calasso: anche di chi la scruta troppo a fondo però, lo dimostra l’atto finale della biografia di Warburg.
Tutto era Warburg, però, tranne che un tradizionalista, il nostalgico di un passato mai avvenuto. “L’attaccamento passionale al Vecchio è condizionato e conduce, dopo un’epoca di transizione nella quale regna la consapevolezza della lacerazione, a un’identificazione incondizionata con il Nuovo”, aveva scritto nel suo diario già nel 1907, ai margini della lettura de L’etica protestante e lo spirito del capitalismo di Weber. Molto più che il primitivo, l’ideale di Warburg restava l’artista, “che oscilla tra una concezione religiosa e una matematica del mondo”, incarnando “i due poli-limite dell’atteggiamento psichico: la quieta contemplazione e l’abbandono orgiastico” – e non per nulla, come l’ultimo capitolo del libro di Ghelardi ci fa scoprire, nel suo ultimo soggiorno italiano Warburg era rimasto folgorato dalla Colazione sull’erba del suo quasi contemporaneo Manet, un quadro nel quale rintracciava le ultime tracce delle ninfe nel cuore stesso di una modernità frivola e sbarazzina. Da un certo punto di vista, Warburg non è solo uno dei pensatori più fecondamente transdisciplinari di tutto il Novecento, ma è anche uno dei più fini interpreti della secolarizzazione; e da molti punti di vista, Warburg è uno dei pensatori del Novecento la cui eredità resta tuttora, e in maniera impellente, in attesa di un’autentica ricezione.

L’importanza del percorso di ricerca di Warburg, con tutti i suoi paradossi e parossismi, si fa tanto più preziosa in un mondo come il nostro, in cui siamo letteralmente sopraffatti dall’immagine: il talento – verrebbe da dire – “auscultativo” con cui Warburg riusciva a risalire dall’immagine al suo archetipo inchioderebbe anche le attuali manifestazioni dell’ansia audiovisiva. L’attuale pululare digitale delle immagini in un exploit produttivo ulteriormente accelerato da social network e piattaforme streaming sarebbe per così dire costretto a riconoscere il suo debito di ascendenza nei confronti delle più antiche rappresentazioni visive. Il cinema, e l’audiovisivo in generale, non sono che la versione più aggiornata delle ombre proiettate sul muro delle caverne. Se è vero che i franchise crossmediali e miliardari hanno preso il posto delle grandi narrazioni nazionaliste e religiose, non si tarderà a scoprire, nascoste nel cuore dell’immaginario pop moderno, antichissime rappresentazioni appena appena mutuate – si veda la rinascita dell’antica gnosi nella fantascienza contemporanea, o l’evidente somiglianza tra l’immaginario supereroistico e il messianesimo ebraico. Anche a questo può educarci Warburg, a cercare il mito dietro ogni storia, l’archetipo dietro ogni scena.

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