
Carmelo Bene all’arrembaggio – Contro il cinema, una latentazione
«C’è gente convinta di fare il cinema perché fa dei film; io non faccio del cinema per fare dei film, questo è importante», tuonava Carmelo Bene in un’intervista risalente alla sua fase cinematografica, poi ribattezzata “parentesi eroica” nella sfuggente autobiografia Sono apparso alla Madonna. Già enfant prodige del teatro italiano, assurto rapidamente all’onore delle cronache già col suo esordio alle scene del ‘59 per essere riuscito a strappare amichevolmente a Camus i diritti sul suo Caligola, rifiutati al meglio del teatro francese, tra il 1968 e il 1973 Carmelo Bene realizzò in stretta successione cinque film: Nostra Signora dei Turchi, Leone d’Argento a Venezia nel 1968, nell’edizione più contestata di tutta la storia del festival; Capricci, presentato alla Quinzaine di Cannes nel 1969; Don Giovanni, passato sia a Cannes che a Venezia nel 1970; la coloratissima Salomé del 1972; Un Amleto di meno, presentato in concorso a Cannes nel ’73, una tappa imprescindibile del lungo corpo-a-corpo che, tra teatro e televisione, C.B. ebbe con il personaggio shakesperiano nel corso di tutta la sua carriera.

Che senso poteva avere, per un artista teatrale che disprezzava apertamente (quasi) tutto il cinema e ancor di più i “cinematografari”, dedicarsi al cinema con un tale accanimento da mettere tra parentesi per un intero lustro la sua attività sui palcoscenici? Carmelo Bene è spesso inafferabile, ma in più punti, e tanto nel linguaggio che utilizzano le sue opere filmiche, quanto ancor di più nelle interviste che concesse a riguardo, sembra emergere un suo desiderio di confutazione del cinema. Non per nulla, l’ottimo libro della minimum-fax che, curato da Emiliano Morreale, raccoglie le sue interviste sulla questione, si intitola proprio Contro il cinema. Nel corso dei suoi cinque film, e in maniera particolarmente esplosiva e “sgrammaticata” in Nostra Signora e Capricci, C.B. fa a pezzi il linguaggio cinematografico, devasta ogni idea di trama, di significato, di sintassi, in nome di un’immediatezza espressiva che il cinema può solo sfiorare, e che si rifaceva, a volte apertamente, ai grandi nomi del modernismo letterario europeo, Joyce in primis.
Proprio su James Joyce Carmelo Bene, più di due decenni dopo la fine della sua “parentesi eroica”, rilasciò in un intermezzo televisivo una dichiarazione che chiariva, a posteriori, il senso stesso del suo (anti-)cinema. «L’Ulisse è soprattutto grandissimo cinema, immagini create dall’elettricità della lingua che si arrende ai significanti, si rende, ne crea degli incroci continui da cui non si esce e i personaggi non esistono», disse nel corso di un’intervista per la RAI in cui volle indicare un libro che gli aveva cambiato la vita, nell’ambito del programma Una sera un libro.

Un moribondo John Huston, per il suo ultimo film, aveva scelto di adattare un racconto scritto dal Joyce ancora prosatore, I morti, contenuto nell’eccezionale raccolta Gente di Dublino; Carmelo Bene, classico e anti-classico al tempo stesso, terribilmente smaliziato nell’uso e nella contaminazione dei linguaggi, si rivolge direttamente alla lectio difficilior dell’Ulisse di Joyce, proponendone quasi una trasfigurazione filmica in un contesto mutato. Non c’è più il flusso di coscienza di un ebreo assimilato nell’Irlanda di inizio secolo: esasperando l’idea di tempo echeggiante che già affiorava nel “romanzo” joyciano, C.B., con Nostra Signora dei Turchi metteva in scena le estasi paradossali e gli ipnotici sensi di colpa di un “martire mancato“, passando senza soluzione di continuità dalla rammemorazione della strage di Otranto del 1480 a una Puglia del presente in cui già si avvertono i segni della volgarità e della secolarizzazione.
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Nel suo arrembaggio al cinema, Carmelo Bene aveva un predecessore – un archetipo, si potrebbe osare di dire. Lo rimarca bene quello che dei filosofi del Novecento fu senza dubbio il più attento al cinema e all’arte in genere, Gilles Deleuze, nella sua Immagine-tempo: C.B., abbordando il cinema per cinque fagocitanti anni per poi lasciarlo in un angolo e mai più farvi ritorno, compie un percorso pressoché simmetrico a quello compiuto da Antonin Artaud tre decenni prima.

Come definire Artaud? Artaud è stato prima di ogni altra cosa un brivido nella cultura e nelle arti della Francia del suo tempo, non diversamente, mutatis mutandis, da ciò che rappresentarono Nietzsche per l’Europa di inizio Novecento, e Carmelo Bene stesso per l’Italia di fine secolo. Attore, drammaturgo, teorico, saggista sprofondato nei decaloghi del Teatro della crudeltà e in extremis negli aforismi che vennero a comporre il postumo Succubi e supplizi, Artaud, che aveva preso parte come interprete a diversi film tra cui notabilmente la Giovanna d’Arco di Dreyer, per un breve periodo della sua vita accarezzò caldamente l’idea di diventare sceneggiatore e forse anche regista di cinema. Per un istante, per un breve istante, sembrò quasi più interessato al linguaggio cinematografico che al teatro, poi però, deluso dalla resa filmica del suo La coquille et le clergyman che era finito nelle mani della regista Germaine Dulac, ripudiò rapidamente e furiosamente il cinema, ritornando a predicare un’idea “crudele” di teatro frutto del folgorante contatto con le ritualità sceniche balinesi.
L’arrembaggio di C.B. al cinema rispettò questo pattern di fondo, ma con due importanti amplificazioni. Innanzitutto, C.B. si cimentò in prima persona con la regia più volte, con un paio di cortometraggi e poi cinque film veri e propri, e se mai ci fu una delusione alla base del suo allontanamento dal cinema, fu una sublime impazienza per l’impossibilità di proiettare su due schermi contemporaneamente la sua sceneggiatura A Boccaperta, basata sulle estasi e sui voli del santo salentino Giuseppe da Copertino. Dall’altro lato, per quanto C.B. dopo Un Amleto di meno e una partecipazione in Claro di Glauber Rocha non sarebbe mai più tornato al cinema propriamente detto, fu indubbia l’importanza rappresentata dalla sua parentesi cinematografica per tutta l’esperienza del “teatro in video” che caratterizzò gli ultimi venticinque anni del suo percorso artistico. Prima di ogni altra cosa, Bene aveva sempre ricusato una fascinazione per il cinema, limitandosi a saltuari, occasionali e spesso contraddittori apprezzamenti per singoli registi o attori di film – Antonioni, Godard e Keaton furono tra i pochi “graziati” dalla sua vis critica, e neanche per tutte le loro opere. A questi tre vanno aggiunti, nell’ultimo periodo della sua vita, il portoghese João César Monteiro e il duo siculo di Ciprì & Maresco.

Il fatto è che C.B., a differenza di Artaud, si era scagliato sul cinema con il deliberato scopo di praticarvi al contempo una confutazione e una perversione: confutazione del cinema storicamente inteso, perversione del cinema come visione, perversione e confutazione congiunte, della possibilità stessa di “fare” un’immagine. Un primo dato banale, etimologico: il movimento. Il cinema, etimologicamente, è connesso con il divenire, κίνημα in greco indica proprio il “moto”. Tutti i film di Carmelo Bene, a vari livelli, compiono un’esacerbata parodia del movimento, della scelta, della possibilità stessa. Carmelo Bene è stato, forse, l’ultimo degli iconoclasti – venuto a mancare un attimo prima che il mondo si facesse, con i social, predominio dell’immagine, e del digitale tutto.
Prendiamo Nostra Signora dei Turchi che, se mai si potesse riassumere, lo si dovrebbe contemplare come il flusso di coscienza di un martire mancato e di una sua reincarnazione impossibilmente moderna. “Non era la prima volta che si buttava dalla finestra…” è una delle battute, fuori-campo, più irresistibili di Nostra Signora dei Turchi, ma esprime benissimo questo scacco radicale dell’azione che attornia tutta l’opera di Carmelo Bene. L’impossibilità del suicidio è la peggiore delle paralisi se, come diceva Emil Cioran, pessimista rumeno ben presente nella biblioteca filosofica di C.B., è proprio la possibilità del suicidio a permetterci di tirare avanti nella vita? E se anche saltare dalla finestra lo implica, un movimento, l’assenza di risultato dell’azione è uguale all’assenza dell’azione stessa. Si agisce, ma a vuoto. È tutto un fuori-sincrono, e un fuori-scena.

O prendiamo invece Capricci, inconsulto eco del Weekend godardiano, impressionante e afasica precognizione del Crash di Cronenberg: qui, in maniera ossessiva ed esponenziale, assistiamo a una sfilza di incidenti in macchina, che però non portano a niente, non hanno né uno scopo extradiegetico di critica sociale, come accadeva in Godard, né un significato narrativo legato alla psiche dei protagonisti. Capricci, questa pellicola dal titolo goyano, è il Cinema assorto a sfasciacarrozze, a residuo, non riciclabile, dell’Idea. Ma il più paradossale di tutti i film di Bene è il Don Giovanni, magnifico trattato sull’irrealizzabilità ontologica di ogni desiderio: questa donna desiderata, resa fantasma, caricaturizzata in bambina, questo oggetto del desiderio è, semplicemente, inafferrabile. Ciò che più di ogni altra cosa resta impresso del Don Giovanni beniano è quel colpo di reni a vuoto con cui il leggendario amante ricorda costantemente a sé stesso e agli spettatori che non si dà possibilità di coito.
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Latentazioni. In questo hapax finisce per condensarsi un’impressione generica e generale dell’intero percorso di Carmelo Bene tra teatro, cinema, di nuovo teatro, radiofonia, teatro senza spettacolo, declamazione, opera lirica, di nuovo teatro, decostruzione televisiva, infine teatro. «O come direbbe Jean-Paul Manganaro: sens’azione», aveva detto una volta C.B., parlando della pittura di Francis Bacon e chiamando in causa Jean-Paul Manganaro, che di Carmelo Bene era stato forse il più intimo amico, tanto che a lui si dovette l’incontro tra il teatrante italiano e il filosofo francese Gilles Deleuze. «Una sensazione. Non è forse questo l’unico auspicabile riconoscimento d’ogni prodotto estetico?», ripeteva C.B. in Quattro momenti su tutto il nulla. Quest’insistenza sul termine “sensazione” non cade a vuoto: Deleuze aveva dedicato una Logica della sensazione sempre allo stesso Francis Bacon, amato tanto dal francese quanto dall’italiano, e qui filosoficamente analizzato come pittore con particolare pregnanza e rigore. Il cerchio si chiude, eppure si riapre.

Latentazioni, dicevamo, latentazioni perché l’immaginario di C.B. non si riduce solo ad un’assenza d’azione trasposta in atto. L’immaginario di C.B. forse non si riduce, punto, ma – preso atto che l’irriducibilità non è mai una lieta categoria critica – invocare delle latentazioni forse è consono ad esprimere il ghignante sistema che nell’opera omnia C.B. si crea tra la latenza – assenza, oblio o distrazione che sia – la tentazione, la tent’azione e l’azione stessa, che impossibile s’erge sovrana.
Tutto, in Nostra Signora dei Turchi, è latentazione. Il film intero è affonda in un immenso ritorno del rimosso articolato su più livelli: i turchi sono, non meno dei tartari di Dino Buzzati e Valerio Zurlini, quell’Inquietante Incombente, quell’”immemorabile avvento dell’ineluttabile” (Heidegger, proprio lui), che costantemente minaccia anche il presente; ma rimossa è anche la Storia, nel nome della sua impossibilità, e proprio perché rimossa, questa storia, in un tempo che non conosce confini né linearità, continuamente può scheggiarsi, e far riaffiorare figure lontane. Santi, martiri, madonne, ancora una volta pericolosi ottomani, “tutto è Bene quel che non finisce mai” – aveva detto in un Amleto televisivo-teatrale proprio C.B., facendo piovere sul testo di Shakespeare un suo conio parodistico-omonimo.

Per il Carmelo Bene di Nostra Signora dei Turchi, la Puglia è un territorio ctonio: e se gli suoi tre film vennero girati in teatri di posa, in maniera del tutto improvvisata il Don Giovanni e in una maniera molto più canonica la Salomé e l’Amleto, Nostra Signora dei Turchi mostra benissimo ciò che soggiace al di sotto del suolo del “Sud del Sud dei Santi”, del Salento più estremo, dove la fede sconfina in barbarie. Il protagonista di Elio Vittorini scendeva al Sud, in Sicilia, oppresso da “astratti furori”: la Nostra Signora beniana, nelle sue molteplici varianti tra romanzo, spettacolo teatrale e film, mostra che anche la permanenza al Sud può essere straordinaria e soffocante catabasi, l’insorgere tragico di un intero carnival of souls. Ecco allora lo scacco dell’azione, l’impossibilità del movimento. In un’interiorità oppressa da una Storia a sua volta inenarrabile, perché resa spuria dalla convergenza di differenti temporalità e di leggende abrase, l’azione è impossibile perché impedita dai fantasmi. Il filosofo francese Jacques Derrida, un’altra delle letture ricorrenti di Bene negli ultimi anni della sua vita, lasciò cadere in un’intervista con i Cahiers du Cinéma l’idea di cinema come «arte di evocare i fantasmi». Carmelo Bene se n’era accorto già trent’anni prima.

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Dire l’impossibile. O ghignarlo. O l’anima è cieca, oppure Dio è oggettivo. Misattribuire, miscitare. Citazioni-nella-citazione: «Codesto solo – dice l’Eusebio nazionale, cioè Eugenio Montale, però traducendo pari pari Nietzsche – oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo», ripeté C.B. in una sua leggendaria apparizione al Maurizio Costanzo Show, copiadellacopiadellacopia. È proprio del genio camuffare le proprie tracce, disse Cioran – le proprie fonti. C.B. le ha occultate tutte, cacciatore delle steppe fra le tavole del palcoscenico. Orgoglio dei manicomi, urgenza dell’espressione. Il flusso di coscienza che si fa teatro, eppure non spettacolo. Smarginare la pagina, addent(r)arla alla dionisiaca. Chiasmi, antitesi, litote. E poi un profondo silenzio, il silenzio che fa scena. Una vita in figura retorica: questo è stato Carmelo Bene.
“Da dove ho cominciato a farla finita una volta per tutte con il discorso?”
C.B., Quattro momenti su tutto il nulla
Bibliografia
Antonin Artaud, Del meraviglioso. Scritti di cinema e sul cinema, Minimum Fax, Roma 2001, a cura di Goffredo Fofi, traduzione di Marta Bertolini ed Enrico Fumagalli
Carmelo Bene, Sono apparso alla Madonna. Vie d’(h)eros(es), Longanesi, Milano 1983
Carmelo Bene, Giancarlo Dotto, Vita di Carmelo Bene, Bompiani, Milano 2002
Carmelo Bene, Opere. Con l’Autografia d’un ritratto, Bompiani Classici, 2004
Carmelo Bene, Contro il cinema, Minimum Fax, Roma 2017, a cura di Emiliano Morreale
Gilles Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 2007
Gilles Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione, Quodlibet, Macerata 2008
Jean-Paul Manganaro, Oratorio Carmelo Bene, il Saggiatore, Milano 2022
Cosetta G. Saba, Carmelo Bene, Il Castoro, Milano 1999
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[…] inciso – consiste nei principi di una critica mimetica. Già ci aveva pensato il suo amico Carmelo Bene a sancire che “ormai fare dell’arte e fare della critica sono la stessa cosa” – e […]