
La ninfolessia è scienza esatta – Il cinema secondo Roberto Calasso | Parte 1
Roberto Calasso è stato uno dei più grandi editori italiani, e uno degli scrittori più ostinati e profondi dell’ultimo cinquantennio di letteratura europea. Nato a Firenze nel 1941, figlio del noto giurista Francesco Calasso, nei primi anni Sessanta ha assistito alla fondazione della casa editrice Adelphi da parte di Roberto Bazlen e Luciano Foà, avendo sempre un ruolo di primo piano all’interno della società e diventandone direttore editoriale già nel 1971.
È stato lui a far scoprire o riscoprire in Italia autori diversissimi tra loro, come Bruce Chatwin, Milan Kundera, Iosif Brodskij, Emil Cioran, o Emmanuel Carrère. Accanto all’attività da editore, presto accostò quella di scrittore, esordendo nel 1974 con L’impuro folle, che diede l’avvio a un’opera letteraria di complessa collocazione tuttora in corso di pubblicazione nonostante la sua morte nel luglio del 2021. Di una ventina di libri, il più noto è sicuramente Le nozze di Cadmo e Armonia, inaspettato longseller sin dal 1988 della sua uscita.
Un uomo così meravigliosamente malato di libri, di carta stampata, un collezionista che si pregiava di possedere rari esemplari delle prime edizioni di Kafka presso Max Brod, che rapporto poteva avere col cinema? L’attenzione di Calasso per il cinema fu sporadica, almeno nelle sue pubblicazioni e nei suoi interventi con la stampa, ma tutti i suoi rari commenti sul tema risultano inaspettatamente illuminanti, ai margini della folgorazione critica. Più che occasionali excursus, sembrano essere degli arbitrari affioramenti di una ricerca molto più ampia e profonda sotto la superficie di un uomo che ha dedicato tutta la sua vita al libro – e, non per nulla, l’ultimo libro da lui pubblicato in vita, Allucinazioni Americane, rappresneta un’originalissima disamina del cinema hitchockiano.
C’è da rilevare innanzitutto che suo fratello maggiore, Gian Pietro Calasso, classe ’37, è stato un importante regista piuttosto innovativo soprattutto a livello televisivo e teatrale, con un’importante parentesi americana al suo attivo. Lo stesso Roberto Calasso ha raccontato, in un’intervista con la franco-iraniana Lila Azam Zanganeh recentemente pubblicata in forma di libro con il titolo de L’estate la sentivo arrivare dal viale, di aver scritto da ragazzo una sceneggiatura tratta da Lord Jim di Joseph Conrad: segno che la tentazione del cinema avesse sfiorato anche lui, almeno occasionalmente.

“Con Calasso avevamo la stessa fissazione per alcuni registi, a cominciare da Alfred Hitchcock e Max Ophüls“, ha commentato di recente suo nipote, e nuovo direttore editoriale dell’Adelphi, Roberto Colajanni, in un’intervista per il Corriere della Sera. Calasso però non aveva la stessa organicità e “ortodossia” di passione che muoveva il nipote cinefilo: “una volta ebbe il coraggio di definire Stanley Kubrick volenteroso — forse la cosa più perfida che gli abbia sentito dire — e non gli rivolsi la parola per vari mesi”. Un simile atteggiamento dell’editore nei confronti di Kubrick non è una sorpresa: a Kubrick si doveva infatti il primo tentativo di adattare per il cinema Lolita, romanzo dell’espatriato russo Vladimir Nabokov di cui l’adelphiana è l’edizione di riferimento in Italia – e rispetto al romanzo il film, pure notevolissimo, aveva apportato non pochi cambiamenti, risultati almeno in parte sgraditi allo stesso Nabokov.
Il suo amore giovanile per il cinema – e il suo relativo allontanamento da esso negli anni della maturità – venne confermato da Roberto Calasso stesso in un’intervista rilasciata al settimanale Il Venerdì nel 2016, al momento dell’uscita del suo saggio Il Cacciatore Celeste: “Sono stato malato di cinema, ora molto meno. Mi piace sempre, però ho perso il gusto per le sale. Un tempo erano posti un po’ fumosi, talvolta loschi”, ricordava Calasso. “Il vero raptus fu da ragazzino, andavo al cinema anche due o tre volte al giorno. La passione è continuata fino a dopo i trent’anni”.

Il grosso della produzione di Calasso si è concentrato su una polistratificata riflessione sui riti, sulle narrazioni e sul sacrificio che ne La rovina di Kasch del 1983 trovava una prima, significativa sistemazione; ma nella ventina di libri che compongono la sua produzione da scrittore si trovano diversi passaggi in cui sul cinema si profilano inaspettate riflessioni. Di solito, riferimenti al cinema compaiono nella sua Opera Unica come fulmini a ciel sereno: nel bel mezzo di Kasch, si cita un’improvvisazione radiofonica di Max Ophüls attorno all’immagine di una finestra illuminata da una candela accostandola al motivo della finestra aperta in Baudelaire per concludere che “l’immagine sullo schermo appare nell’età in cui le immagini mentali tendono a invadere le strade e a trasformarsi in percezioni brute”; ne La Folie Baudelaire, il cofanetto per cucito posto da Degas al centro della tela Lo stupro viene all’improvviso accostato alla valigietta di Grace Kelly nella Finestra sul cortile di Hitchcock.
Ma la riflessione di Calasso sul cinema si è concentrata innanzitutto ne La follia che viene dalle Ninfe, un volumetto della Piccola Biblioteca Adelphi destinato a raccogliere una serie di articoli e di saggi brevi sul tema della possessione. Stupirà, ma non troppo, che all’interno di un libro di questo tipo trovi spazio anche La sindrome Lolita, un intervento sulla già citata Lolita di Vladimir Nabokov, di cui Calasso era l’editore italiano, originariamente apparso sul Corriere della Sera al momento dell’uscita del controverso remake diretto da Adrian Lynn.

Il breve saggio di Calasso partiva dalle polemiche che, anche a distanza di quarant’anni dall’uscita del romanzo, continuava a suscitare la storia contenuta in Lolita – un maturo professore europeo che si innamora di una quindicenne americana -, per poi indagare sul suo sottotesto mitocentrico. “Come capita spesso agli scrittori più grandi”, argomentava Calasso, “Nabokov era un maestro nel disseminare i suoi romanzi di segreti palesi”: espressione di Goethe che, nel caso del controverso romanzo di Nabokov, si applicava all’uso del termine ninfa. Il diminutivo ninfetta si è imposto sin dal momento della sua uscita come neologismo particolarmente fortunato per far da perifrasi a “minorenne eccitante”, ma, sostiene Calasso, se il termine si è imposto “non così il concetto”: nessuno dei critici si accorse infatti del fatto che “tutto il libro era uno straziato, sontuoso omaggio alle Ninfe offerto da qualcuno che dal loro potere era stato soggiogato”. Humbert Humbert, il protagonista maschile della vicenda, altro non sarebbe allora che la variazione moderna di colui che gli antichi greci definivano nympholeptos, vale a dire “colpito”, “accecato dalle ninfe”: non per nulla, in un inciso misterico del romanzo, Nabokov arrivava a dire che “la ninfolessia è una scienza esatta”. L’aspetto mitologico del romanzo si trova qui nascosto in piena luce.
Come tutte le volte che Calasso si sporge ad affrontare il contemporaneo o comunque il moderno – esemplare a tal riguardo è L’Innominabile Attuale, libro datato 2017 – La sindrome Lolita affronta di petto i paradossi della secolarizzazione. Paradosso che Calasso collega alla cattiva ricezione di cui tuttora a volte gode il libro, ingiustamente accusato di pornografia se non addirittura di pedopornografia. Ipotizza Calasso: “forse lo scandalo che Lolita suscitò in alcuni quando apparve – e a quanto pare continua a suscitare – era dovuto soprattutto al fatto che Nabokov obbligava, con i mezzi proditori e matematici dell’arte, la mente a risvegliarsi all’evidenza, all’esistenza di quegli esseri – le Ninfe – che possono anche presentarsi sotto la specie di una ragazzina americana con i calzini bianchi”. A dar retta alla definizione di Calasso – che alla ierogamia aveva dedicato tutto Le nozze di Cadmo ed Armonia – per gli antichi greci “il corpo delle ninfe era il luogo stesso di una conoscenza terribile, perché al tempo stesso salvatrice e funesta: la conoscenza attraverso la possessione”. Nell’inderogabile inglese di un espatriato russo che si trovava a vivere negli Stati Uniti ma a pubblicare in Francia, ritrovavano attualità erotica figure e fantasmi che avevano albergato nella fantasia dell’uomo sin dalla più remota antichità. Ma già solo per postularle, per nascondere le ninfe dietro un’all-american girl, per questo gioco delle tre carte con il simbolo e con l’Eros, Nabokov metteva in crisi l’abituale credenza del razionalismo moderno di ritenersi immune da ogni superstizione e da ogni traccia di religiosità. Ma cos’è l’arte del raccontare storie, se non un continuo traffico di archetipi? Insomma, era la memorabile conclusione dell’intervento di Calasso, “più che il sesso, lo scandalo” di Lolita “era la letteratura stessa”.

Sempre all’interno de La follia che viene dalle Ninfe, un capitolo prima di lanciarsi in un’apologia di John Cage, Calasso trattava anche del divismo: in un testo intitolato Il guanto di Gilda, quello più datato tra i vari interventi raccolti nel volumetto, pubblicato su Panorama nell’ottobre del 1977. Partendo dalle allora recenti proiezioni di film e retrospettive alla basilica di Massenzio di Roma, Calasso andava rievocando il tempo dei cineclub scalcinati, il cui fondamento, “la risibile categoria del cinema d’autore”, era stato corrotto “a poco a poco, soprattutto dalla torma sempre crescente dei cinéphiles”, che avevano spostato la loro attenzione dal Grande Regista a tutti gli altri elementi, tecnici, artistici e umani, che concorrono alla realizzazione del film. A questo punto, passando attraverso una riflessione sulle Convenzioni e sui Generi, Calasso proponeva la sua definizione della specificità del cinema, che condivide oscuri echi con quella proposta, due decenni dopo, dal filosofo Jacques Derrida ai Cahiers du Cinéma.
“Il sogno più antico e più efferato del mondo in cui viviamo è quello di rendere cosa il fantasma. Ebbene, il cinema permette di avvicinarsi come mai prima, e con terribile immediatezza, a questo sogno”, postulando al tempo stesso la “quasi-inesistenza” e la “super-esistenza” di tutto ciò che, cosa o persona, oggetto di scena o grande attore, fagocitato dall’implacabile occhio della macchina da presa finiva impresso su pellicola. Ecco perché secondo Calasso il cinema esprime “il feticismo totale”, perché esso “mette nella condizione di poter utilizzare come feticcio la totalità dei fantasmi psichici”.
In questo testo Calasso sgancia una personalissima epifania sul cinema, in una delle pagine più illuminate dell’intera sua opera: a sentire il patron dell’Adelphi, nel corso del Novecento il cinema è stato oggetto di una “grandiosa migrazione degli dèi”, attratti alla settima arte dall’implacabile “forza della Convenzione” che, scomparsa dal romanzesco, è invece risorta nel grande cinema, per certi versi una vera e propria mitologia. “Bisognerà decidersi”, raccomandava la conclusione dell’articolo, “a capire che le star sono astri, come lo erano Andromeda e le Pleiadi. Solo se si riconosce questa comune origine astrale e fantasmatica, si potrà arrivare a capire quali sono le differenze – e le distanze, anch’esse stellari, fra il Sunset Boulevard e l’Olimpo”, assicurava Calasso nelle ultime righe dell’articolo.

Il titolo dell’articolo di Panorama poi ripreso ne La follia faceva riferimento al guanto indossato da Rita Hayworth in Gilda di Charles Vidor, al tempo stesso “un oggetto”, annoverabile tra gli Hollywood memorabilia, “un fantasma feticistico per eccellenza” e “un’allucinazione comune vissuta nell’oscurità delle sale cinematografiche da uno sterminato numero di persone che non si conoscono, non vogliono conoscersi e comunicano soltanto attraverso questa muta immagine”. Lolita non meno di Rita Hayworth, ecco affiorare ancora una volta il fantasma della ninfa, collegialmente adorata dagli uomini, comuni mortali. Ma, benché ninfolettico esso stesso, lo sguardo di Calasso sui paradossi del divismo non si limitava solo alle grandi attrici. Anche un attore come Marlon Brando poteva cadere sotto la sua ottica archetipica. La disamina del divismo proposta da Calasso ne La follia che viene dalle Ninfe è stata a tal riguardo ripresa in una delle sue ultime interviste, la già citata intervista de Il Venerdì che partiva da Il Cacciatore Celeste. Agli intervistatori Marco Cicala e Piero Melati che gli chiedevano come mai avesse definito Brando un mutante, Calasso rispondeva semplicemente: “perché è così che lo percepivo. Lo dicevano in molti. Oggi non lo si guarda più in quel modo. Oggi sembra semplicemente un grande attore, ma ricordo perfettamente che quando apparve sembrava appartenere a una specie umana un po’ diversa. Quasi atterrato da un altro pianeta”.

Quello rappresentato da Brando era “un fenomeno divergente da quello di James Dean”, troppo legato al mito del bello e dannato a causa della sua precoce fine: Dean con sole tre interpretazioni si è eternato nel mito della settima arte, “Brando invece appariva sullo schermo in forme molto diverse… aveva un modo di essere che non somigliava a quello di nessun altro. Ma lo mantenne solo in quei primi film” – Un tram che si chiama Desiderio, Fronte del Porto, Giulio Cesare, elencava Calasso – “poi sarebbe diventato solo una star”. E una volta diventato al tempo stesso beneficiante e vittima di un simile catasterismo, per la prima volta Brando si era trovato in un ruolo per lui troppo stretto: sé stesso.
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