
Apollo 10 1/2 – Un’infanzia spaziale
È da poco disponibile su Netflix Apollo 10 ½: A Space Age Childhood, l’ultimo film di Richard Linklater, che a 16 anni da A Scanner Darkly (2006) sceglie di tornare all’animazione per riportarci nell’estate del 1969, quando l’uomo posò piede per la prima volta sulla superficie lunare. Come recita il titolo, Apollo 10 ½ è il racconto di un’infanzia trascorsa nell’epoca dell’esplorazione spaziale, ripercorsa attraverso le avventure di Stan, studente della scuola elementare di El Lago, Texas, che un giorno viene reclutato dalla NASA per compiere un viaggio sulla Luna. E se vi steste chiedendo come mai la NASA si rivolga proprio a un bambino, l’agente a cui presta volto e voce Glen Powell ci viene in soccorso con un’incredibile spiegazione: «Abbiamo accidentalmente costruito il modulo lunare un po’ troppo piccolo, ma questo non riuscirà a fermarci».

Partendo da questo spunto narrativo, Linklater ci restituisce un quadro della società americana dell’epoca e in particolare si sofferma sulla vita di una tipica famiglia della middle class dei sobborghi di Houston, a pochi passi da una base NASA, che quell’estate seguì, come centinaia di milioni di persone in tutto il mondo, le sorprendenti immagini del primo allunaggio. I filmati d’epoca trasmessi dalla televisione si intrecciano così con le sfrenate fantasie del giovane protagonista, in una sorta di riscrittura della Storia dove il reale si mescola con l’immaginazione e i sogni di un bambino di 9 anni. A far da filo conduttore di tutta la pellicola è la voce narrante di Stan ormai adulto, che ci guida tra i suoi ricordi senza però tradire lo sguardo ingenuo e libero del sé bambino. In un interessante cortocircuito, a prestare la voce allo Stan adulto è Jack Black, protagonista di uno dei maggiori successi del regista texano, School of Rock (2003), e amico di lunga data, la cui madre ha lavorato come ingegnere proprio per la NASA.
Appare ormai evidente come i richiami autobiografici contenuti all’interno del film siano fortissimi; il regista texano è cresciuto, come il protagonista, a Houston vicino a una base spaziale ed è suo il sogno infantile diventare un astronauta, come ha raccontato durante un’intervista rilasciata a Collectspace.com. L’elemento autobiografico è solo uno dei tanti elementi ricorrenti nella filmografia del regista che possiamo ritrovare in quest’ultima opera e che la connotano come un film indiscutibilmente e profondamente linklateriano, una sintesi, se vogliamo, del meglio dell’universo esplorato nella variegata ed eterogenea filmografia precedente. Anche l’attenzione per l’infanzia e più in generale per il mondo giovanile è già al centro di numerose pellicole, tra le quali è doveroso ricordare Boyhood (2014), ma anche Slacker (1990), l’esordio di Linklater, Dazed and Confused (1993) e Everybody Wants Some!!! (2016).

Una storia come questa, dove fantasia e realtà sono così strettamente intrecciate da non riuscire più esattamente a distinguere l’una dall’altra e che cerca di catturare e restituire lo sguardo di un bambino sul mondo, non poteva che essere raccontata utilizzando l’animazione. Linklater sceglie di optare nuovamente per la tecnica del Rotoscope, che consiste nell’animare immagini girate in live action, già sperimentata precedentemente per Waking Life (2001) e A Scanner Darkly (2006). L’uso di questa particolare tecnica di animazione si lega al tipo di rapporto che il cinema del regista texano intrattiene con il reale e che, di volta in volta, viene declinato diversamente, ma che ritorna come una costante nella sua riflessione. Se apparentemente la scelta dell’animazione rispetto al live action sembra svincolare il regista dalla dipendenza dal reale, permettendogli di inserire più facilmente l’elemento immaginario e fantasioso nell’universo rappresentato, allo stesso tempo l’adozione di questa particolare tecnica non fa che ricondurlo costantemente alla realtà fattuale.
L’immagine realizzata in Rotoscope non può prescindere, infatti, dalla corporeità del mondo e degli attori che si trovano davanti alla macchina da presa ed è proprio il reale che funge da fondamento per la realizzazione dell’animazione. Non solo, nel film sono stati inseriti numerosissimi filmati d’epoca, trasmessi dall’onnipresente televisione, che sono stati trasformati in immagine animata, ed è stato fatto un grande lavoro di ricerca storica attraverso materiali recuperati dall’archivio di Houston e della NASA e le fotografie e gli home video degli abitanti della zona, raccolti con una call nel 2017 e utilizzati come spunto di partenza dallo studio di animazione.

A differenza di quanto ci si potrebbe aspettare, il viaggio sulla luna occupa una parte minima della narrazione e sembra fungere da pretesto narrativo per lasciare invece ampio spazio al racconto minuzioso della quotidianità di Stan e della sua numerosa famiglia, vero oggetto dell’interesse di Linklater; assistiamo così a numerose e futili conversazioni, apprendiamo nei dettagli le tecniche di risparmio messe in atto dal papà di Stan, le teorie complottiste della nonna o le serie tv più in voga in quell’estate del 1969. Linklater torna, come in Boyhood, a un cinema delle piccole cose, quotidiane e spesso insignificanti, di cui riesce a restituirci un’immagine nostalgica e incredibilmente familiare insieme.
Il film appare indiscutibilmente intriso fino al midollo dell’identità culturale americana, altro fil rouge della produzione di Linklater, e tratteggia un periodo storico facendosi trasportare dalla nostalgia e dai ricordi idealizzanti piuttosto che proponendo una rilettura analitica e adulta. Se da una parte si potrebbe obiettare a Linklater di mancare di spirito critico – come si legge, ad esempio, in questo articolo dell’Internazionale – la scelta appare invece consapevole, nella volontà manifesta di preferirvi l’adozione di un punto di vista particolare e intimo, più in linea con le corde del regista, in grado di risvegliare nel pubblico quelle sensazioni mai del tutto sopite che appartengono al mondo della nostra infanzia.
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