
Il cinema di Richard Linklater – Tra creatività indipendente e circuiti commerciali
Che cosa hanno in comune School of Rock, rassicurante feelgood movie hollywoodiano, Boyhood, sperimentazione senza precedenti che filma la vita di una famiglia americana per 12 anni e A Scanner Darkly, trasposizione in digital rotoscoping di un romanzo di Philip K. Dick? Apparentemente nulla, eppure tutti e tre i film sono stati girati dallo stesso regista, Richard Linklater.
Americano fin nel midollo, Linklater nasce a Houston in Texas il 30 luglio del 1960, ma è ad Austin, all’epoca città in pieno fermento cinematografico, musicale e artistico, che sceglie ben presto di abitare. Formatosi da autodidatta leggendo saggi sul cinema e trascorrendo intere giornate davanti allo schermo, nel 1983 il giovane Richard Linklater investe tutti i propri risparmi per acquistare una cinepresa Super8 dando inizio ad una lunga carriera prolifica ed estremamente multiforme.

Ciò che colpisce maggiormente quando ci si approccia alla figura del regista texano è l’impossibilità di incasellarlo all’interno di una qualsiasi categoria; autore di cinema indipendente, sperimentatore coraggioso, regista di film hollywoodiani di successo (ma anche di grandi fallimenti) sono tutte espressioni che si possono usare per parlare di Richard Linklater, ma allo stesso tempo nessuna di queste lo definisce veramente. La variegata filmografia di Linklater rifugge ogni catalogazione, esibendo una grande varietà di temi, storie e generi diversi e intrecciando ripetutamente il cinema indipendente e l’industria cinematografica hollywoodiana, in un paradossale cortocircuito tra sperimentale e mainstream.
Al di là delle innumerevoli differenze tematiche, produttive e stilistiche che si riscontrano nei suoi film, la poetica del regista appare comunque sempre riconoscibile pur nella diversità delle sue produzioni. Il regista texano si distingue fin dalle prime pellicole per un’attenzione particolare per la vita “vera” e ordinaria, realizzando film minimali in cui spicca prima di tutto l’assenza di una trama forte, la mancanza di un perno attorno a cui ruota la narrazione. Gli intrecci di molte sue opere si fanno quasi “invisibili” e il regista porta sullo schermo storie in cui non succede quasi nulla, ma che lasciano ampio spazio al dialogo e alla rappresentazione di momenti quotidiani, anche banali, inclusi i tempi morti e le parti “noiose”.

Caratteristiche queste che ritroviamo nel Linklater esordiente, con Slacker del 1990, film manifesto della Generazione X, divenuto ben presto un vero e proprio cult. Il film è il secondo lungometraggio realizzato dal regista (Linklater esordisce infatti nel 1988 con It’s impossible to Learn to Plow by Reading Books), il primo però ad avere una vera distribuzione e che lo consacrerà alla scena indie grazie anche al passaggio al Sundance Film Festival. In Slacker Linklater decide di seguire per 24 ore più personaggi, fannulloni e scansafatiche come recita il titolo, in giro per le strade di Austin. Adottando un punto di vista corale (i ragazzi seguiti dalla macchina da presa di Linklater sono un centinaio), il regista texano dà voce a un’intera generazione che fatica a costruirsi un’identità, rifuggendo ogni forma di lavoro o dovere imposti dalla società per dedicarsi completamente all’ozio creativo.
L’elemento corale, anche se non così radicale, e l’interesse per la cultura giovanile e i loro riti generazionali ritorna anche in molti film successivi del regista, come in Dazed and Confused (La vita è un sogno, 1993) che racconta l’ultimo giorno di scuola in un liceo americano e in Everybody Wants Some!!! (Tutti vogliono qualcosa, 2016), sequel spirituale che si concentra sui giorni precedenti l’inizio del college. E non è forse uno Slacker in piena regola anche Dewey Finn, interpretato da un indimenticabile Jack Black, protagonista di School of Rock (2003), il più mainstream dei film del regista?

Un altro elemento appare sicuramente centrale nella poetica di Linklater: la sua fascinazione per la dimensione temporale, per cui dimostra un’attenzione molto particolare. Sempre a partire da Slacker, molti film di Linklater si svolgono in un lasso di tempo molto breve e circoscritto. Così come Dazed and Confused, anche subUrbia (1996), ritratto disilluso della periferia americana, si svolge tra il tramonto e l’alba, mentre Tape (2001) è girato interamente in tempo reale, senza ellissi o salti temporali. The Before Trilogy e Boyhood sono però le opere che appaiono più significative per quanto riguarda la sperimentazione sul tempo, dove la ricerca di una sovrapposizione tra la durata reale e la durata della finzione viene spinta alle estreme conseguenze.
Before Sunrise (Prima dell’alba, 1995), Before Sunset (Prima del tramonto, 2004) e Before Midnight (2013) raccontano l’appassionata storia d’amore di Jesse e Céline, interpretati magnificamente da Ethan Hawke e Julie Delpy. Ciascun film della trilogia cattura unicamente un momento della vita e della relazione dei due protagonisti: il primo incontro nell’estate del 1994, l’incontro successivo, a distanza di ben nove anni dal primo, che costituisce un secondo inizio per la loro relazione ed infine, altri nove anni dopo, una vacanza estiva in cui li ritroviamo invecchiati e con due figlie, alle prese con problemi familiari e litigi di coppia.

L’arco di un’intera relazione viene mostrato attraverso tre giornate che rappresentano altrettanti momenti della vita umana e dell’evoluzione del loro sentimento amoroso: la giovinezza trasognante ricca di romanticismo e forti ideali (sunrise), l’età di mezzo segnata dal rimpianto ma anche da una nuova possibilità (sunset) ed infine la maturità (midnight), disillusa, fatta di litigi e frustrazioni ma anche di sentimenti più profondi e consapevoli. La sperimentazione sul tempo non si ferma qua: Linklater sceglie di girare le tre pellicole a distanza di nove anni l’una dall’altra, mantenendo lo stesso lasso di tempo delle vicende raccontate, facendo così invecchiare i suoi attori accanto ai loro personaggi.
Questa operazione viene ripresa e se possibile intensificata nel progetto successivo, Boyhood (2014), che racconta l’adolescenza di Mason seguendo la sua crescita e la sua maturazione dai sei ai diciotto anni, quando il ragazzo si appresta a lasciare la famiglia per andare al college. Rispetto alla trilogia la sperimentazione di Linklater si fa ancora più audace dando vita ad un progetto sorprendente ed irripetibile: il regista texano rappresenta sullo schermo un arco temporale di 12 anni servendosi del medesimo cast che riunisce ogni anno per le riprese, condensando la trasformazione degli attori, lo scorrere del tempo e il mutare di un’epoca in un unico film di 165 minuti.

Il cinema di Richard Linklater, continuamente in bilico tra aspirazione all’indipendenza creativa e fascinazione per i generi tradizionali, può apparire sfuggente e per certi versi contraddittorio. La sua è una carriera dall’andamento altalenante, costellata di opere che hanno subito il plauso della critica e ricevuto importanti riconoscimenti, tra cui Before Sunrise e Boyhood, entrambi vincitori dell’Orso d’Argento a Berlino, ma anche da cocenti battute d’arresto, su tutti Newton Boys (1998), vera e propria catastrofe commerciale. Ma nonostante gli insuccessi e le incomprensioni, il regista texano ha sempre saputo rialzarsi a testa alta, rivendicando coraggiosamente, attraverso la sua filmografia proteiforme, il diritto di spaziare e sperimentare, vagando libero all’interno della settima arte come le moltissime figure di flâneur che popolano i suoi film, ma rimanendo nel profondo sempre fedele a se stesso.
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