
L’Ètang da Walser a Vienne – Come annegare nell’impudicizia
Roberto Calasso diceva di Walser che leggerlo era come «fuggire dal pensiero», passando dal sospetto della mistificazione alla certezza del mistero. E non c’è modo di accostarsi a un racconto che nella sua sinossi è già così violento e disperante, se non attraverso la mistificazione, e cioè con una distorsione di spazio, tempo e pensiero talmente radicale da collassare verso il suo centro. È esattamente ciò che è accaduto con L’Ètang di Gisèle Vienne, tratto dall’omonimo scritto di Walser, una delle vette raggiunte dalla quinta edizione di FOG Triennale Milano Performing Arts.
Il breve scritto di Walser “Lo Stagno” era destinato alla circolazione privata, quasi una confessione intima alla sorella Lisa, forse troppo drammatica per trovare voce pubblica nonostante la catarsi del pezzo d’arte. L’Ètang racconta infatti del giovane Fritz che vive un trauma relazionale: sente il disamore della madre, rispetto agli altri fratelli, e decide di mettere in scena il proprio suicidio. Il progetto è architettato e concluso nell’arco di una sola giornata, con l’unico intento di destare il dolore degli altri: «Forse si accorgeranno che anch’io conto qualcosa», è tra le prime frasi proferite dal personaggio.

Quello che Gisèle Vienne ha fatto con questo nocciolo di disperazione ha profondamente a che fare con il senso del teatro: trattare una materia brutta, squarciare la presunzione di bontà dentro di noi, parlare di ciò di cui non si parla. Per esempio, di come una madre possa non amare un figlio che ha tenuto in grembo e dato al mondo. Ma nel raccontare questa storia di sofferenza non c’è alcun segno di compiacimento su quanto si nasca già doloranti, più agnelli che tigri direbbe Blake, tutt’altro. La regista, che ha alle spalle una preparazione da filosofa, fa innanzitutto un lavoro pregevole di analisi del testo, muovendosi tra la temporalità sincopata e le proiezioni immaginifiche di cui è intriso il monologo a più voci. Questa struttura a ossimoro, per cui Fritz è sé stesso (uno), ma anche tutti gli altri (molti) di cui gli restano le ferite in corpo, si concretizza sulla scena nell’abilissima Adèle Haenel e nella sua unica interlocutrice, Henrietta Wallberg.
Vienne gioca con il fuoco delle contraddizioni tra intento e azione nel personaggio-polimero, rinchiudendolo in uno spazio asettico che ingabbia entrambe dentro le proprie disfunzionali relazioni. Lo scenario è psichedelicamente pop: le casse bluetooth, le caramella gommose, i ninnoli in disordine, tutto puzza di adolescenza e di una trasgressione ancora troppo giovane per essere colpevole. Sin da subito si afferra che Vienne ha tra le mani una pasta difficile da rendere malleabile, e soprattutto che lei non desidera che lo spettatore deglutisca senza rumore. Le due attrici si muovono plasticamente in questa stanza teatrale che, per definizione, è lo spazio sicuro in cui tutto è rappresentabile perché sublimato artisticamente. Così si godono un ingresso in slow motion in un’arena infuocata in cui Fritz può confessare che evita di parlare ai pranzi di famiglia, quando tutti sorridono, e che l’unica cosa che ha imparato a fare è stato usare le buone maniere per scomparire e passare inosservato, quindi incolume.

Tra le due attrici si instaura una compresenza tale per cui, senza mai rivolgersi l’una all’altra o senza addirittura proferire parola, i corpi sembrano incapaci di allontanamento o repulsione: come una madre con un figlio. La regista amplifica questo senso di incomunicabilità modulando i ritmi vitali delle attrici, così che mentre Fritz riprende a parlare a una velocità naturale, la madre-totem resta avvinghiata a un procedere vischioso. La lentezza e l’alterazione sono una trovata scenica essenziale: la prima fa sì che tutto penetri come una goccia che scava la pietra, e la seconda evita che la madre-totem giunga mai in tempo alle invocazioni del disperato Fritz. C’è un’altra funzione salvifica nell’utilizzo della dilatazione del movimento: l’allegoria delle droghe nella stanza spostano la narrazione su un piano di iper-realtà che, per i suoi tratti anche utopici e di non luogo, ci consentiamo di abitare. Ed è teatro, ed è arte, tutto ciò che ti conduce per mano ad aprire cassetti che pensavi inchiodati per sempre.

La sensazione suscitata dallo spettacolo di Vienne è simile a quella che ho recentemente provato davanti al surrealismo del Baphomet di Kurt Seligmann: la percezione di qualcosa di satanico dentro l’uomo, tenuto in catene da un complesso strutturato di norme e regole sociali (l’Istituto Benjamenta, è il nome che gli ha dato Walser). Questa è una storia di una famiglia disfunzionale, è vero, ma non solo. Ci sono gli eccessi, gli abusi, persino le dissociazioni della personalità, ma la madre-totem ha qualcosa di mefistofelico in ogni fibra del suo corpo, nel modo in cui incede, come una pericolosa venere in pelliccia, verso il vulnerabile e annaspante Fritz.
Non esistono dubbi, è vero, sullo schieramento etico rispetto ai personaggi: «perché una madre non dovrebbe essere gentile»?, perché un figlio non dovrebbe aver bisogno dei genitori?, può la vita di un bambino essere già una giacca ridotta a brandelli da cui entra troppo freddo? Sono le domande che si pone Fritz piangendo e mugugnando, gemendo e strisciando, commiserandosi e poi muovendosi violenza, in una reiterazione di ruoli talmente persistente da fagocitarci in queste perversioni. Ma il punto esatto della riuscita di questo spettacolo è che il male si insinua con lentezza, contaminando lo spettatore con la sua stessa impudicizia. Così Vienne non resta mai in superficie, ma sovverte il senso comune fino a toccarne delle deformazioni impensabili, e a farle toccare con mano anche a noi per dubitare della nostra presunta bontà d’animo.

L’Ètang di Gisèle Vienne non è soltanto una storia di incomunicabilità e violenza: è una storia di stratificate e latenti disumanità. E l’adattamento di Vienne, con i suoi suoni apocalittici e le luci da videogame, apostatizza ogni convenzione da noi conosciuta. Ci troviamo così a percepire fino al fondo delle viscere che esistono aberrazioni sessuali inconfessate, che all’autorità genitoriale è spesso connesso un desiderio vessatorio, che quando si sta sulle ginocchia di qualcuno si può essere vittima e carnefice. L’Ètang rende quelle ginocchia un luogo estremamente scomodo, con un’opera disturbante che, mentre vuole darci un ultimo bacio, finisce per farci vomitare.
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