
Quando Elémire Zolla commentava Il Signore degli Anelli
Elémire Zolla è stato un personaggio irripetibile della cultura italiana del secondo Novecento – e, non per nulla, è venuto a mancare poco dopo lo scoccare del millennio. Verrebbe da definirlo il più influente storico delle religioni italiano, se non fosse che lui non credeva nella storia, o, perlomeno, nello storicizzare. Il suo percorso da intellettuale è stato tutt’altro che lineare: dopo un esordio narrativo, entrò prepotentemente nei dibattiti politico-culturali di fine anni Cinquanta con il saggio Eclisse dell’intellettuale.
Benché, soprattutto negli ultimi decenni della sua vita, la sua attenzione fu sempre più assorbita dagli insegnamenti e dai temi comuni tra le grandi religioni del mondo e alle più esoteriche tradizioni spirituali, nel corso della sua ricerca indagò col medesimo sguardo archetipico numerose altre questioni letterarie e sociali, dalle opere del marchese De Sade alla presenza di messaggi subliminali all’interno delle pubblicità made in USA, ed è in questo contesto che nacque anche la sua prefazione alla prima edizione italiana completa de Il Signore degli Anelli di J. R. R. Tolkien – qualche anno fa definita “famigerata” da Saverio Simonelli, tra i maggiori studiosi italiani di Tolkien. A tal riguardo però forse conviene fare un passo indietro.

La composizione del Signore degli Anelli, del suo predecessore Lo Hobbit e degli altri scritti che raccontano l’universo della Terra di Mezzo – usciti prevalentemente tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta – trasformò quello che era “semplicemente” uno dei massimi esperti, a Oxford, di letteratura inglese antica in uno scrittore di fama mondiale. Il successo dell’opera fu immediato e, dopo l’uscita della trilogia de Il Signore degli Anelli tra 1955 e 1967, Tolkien si trovò addirittura candidato al premio Nobel.
Ma, mentre lettori di tutto il mondo si appassionavano alle storie della famiglia Baggins e negli Stati Uniti un editore si affrettava addirittura a pubblicarne un’edizione senza il permesso dello scrittore, sfruttando la differente legislazione in materia di copyright, l’arrivo di Tolkien in Italia fu travagliato, complesso e problematico. Tuttora, la storia editoriale de Il Signore degli Anelli in Italia è un caso a sé, che contempla anche improbabili denunce per il dibattito che alcune traduzioni hanno suscitato. Come recentemente ha dimostrato anche la campagna elettorale in vista del voto del 25 settembre, in Italia la saga di Tolkien si è caricata anche di discutibili sovrinterpetazioni politiche, cosa di cui, di recente, si sono occupati anche due nomi non da poco come Walter Siti e Loredana Lipperini.
A dire il vero, già prima della sua effettiva pubblicazione italiana Il Signore degli Anelli aveva dato vita a curiose prese di posizione da parte di alcuni dei nostri maggiori intellettuali, come Elio Vittorini che contribuì a impedirne la pubblicazione per Mondadori nei primi anni Sessanta. Alla fine, dopo un’iniziale pubblicazione de La compagnia dell’anello per l’Astrolabio nel 1967, nel 1970 la trilogia di Tolkien apparve in un unico volume edito da Rusconi, un editore notoriamente schierato “a destra” – un fattore che, come abbiamo visto, tuttora influenza la ricezione dell’opus tolkieniano in Italia, anche adesso che i principali editori di Tolkien in Italia sono la Bompiani e, per quanto riguarda Lo Hobbit, anche l’Adelphi.

Ma qual è il fulcro della lettura fatta da Zolla de Il Signore degli Anelli, insolitamente lunga per essere una prefazione? La tesi di Zolla è, effettivamente, improntata a una forma aristocratica di tradizionalismo culturale, nella misura in cui celebra l’epopea di Tolkien per il suo legame autentico con l’antico, lo differenzia dai contemporanei e lo difende a spada tratta dai suoi critici più “ideologici”. Tolkien, agli occhi di Zolla, è andato contro le convenzioni, soprattutto quelle accademiche che pretendono “che il filologo o lo storico del gusto partecipi per la parte riservata al suo ufficio all’opera di schedatura universale, nel quadro d’una Burocrazia-come-Essere-che-si-svela-a-se-stesso. Guai a far rivivere l’antico (uccidendo il moderno)”.
Scrittori come Mark Twain e J.B. Cabe avevano giocato con l’antico parodiandolo o riscrivendovi sopra una favola romantica, Tolkien ha voluto ricreare in tutto e per tutto un epos antico, cristiano, con lo stesso codice valoriale improntato ad una purezza radicale. In tempo di crisi del simbolo, a differenza di altri scrittori inglesi a lui contemporanei che pure hanno svolto percorsi paralleli sulla resurrezione della fiaba e del mito, come C.S. Lewis o Robert Graves, Tolkien “non cerca la mediazione fra male e bene, ma soltanto la vittoria sul male”. Se una genealogia che da William Blake porta a Carl G. Jung e infine a Graves e alla sua Dea bianca celebra nell’androginia una sorta di coniunctio oppositorum, una commistione ibrida tra valori positivi e più sinistri accenti, Tolkien andando contro anche ogni ingenuità della letteratura cavalleresca “accetta il destino di sconfitta che è inevitabile per l’eroe solare: vincitore è l’Anarca, come già nel Giardino, ma tanto maggiore è dunque la purezza di chi lo combatte”.
All’interno della sua prefazione, Zolla inserisce anche numerosi analisi sui sottotesti archetipici inerenti ai personaggi, alle vicende, alla numerologia e anche ai giochi di colori che attraversano Il Signore degli Anelli di Tolkien; ma i passaggi più interessanti, quelli più rappresentativi tanto dell’opera zolliana quanto del clima politico-culturale in cui essa uscì e non solo in Italia, sono quelli in cui Zolla prende posizione contro la ricezione ideologizzata del neo-epos. “Naturalmente le infrazioni di Tolkien non potevano che suscitare le reazioni coatte, sonnamboliche e feroci che si sanno di prammatica. «Non è la sua un’opera staccata dalla realtà? Non è forse un’evasione?»”. Fortunatamente, lo stesso Tolkien, in un suo saggio teorico sulla fiaba, aveva preventivamente risposto a queste insinuazioni: la fiaba è un’evasione, sì, dall’ipotetico carcere della quotidianità, e chi la biasima per questo confonde “la santa fuga del prigioniero con la diserzione del guerriero, dando per scontato che tutti dovrebbero militare a favore della propria degradazione a fenomeni sociali”. In fondo, commenta Zolla, “autore o amatore di fiabe è colui che non si fa servo delle cose presenti”, ma serve l’eterno con i suoi valori. In diversi punti de Il Signore degli Anelli, emerge con forza il côté cristiano dell’immaginario di Tolkien, e anche questo, a detta di Zolla, “non tollera l’idea che esistano santi, carismatici che perseguano il bene (il divino, non le buone azioni) fine a se stesso, perciò nemmeno può ammettere l’esistenza d’un satanico, consapevole esecutore di un male senza secondi fini”.

“Come mai il gran stuolo di lettori viceversa gode a farsi insinuare nel cuore un messaggio così ostico alla moderna miseria? Non se ne accorge? O forse se ne accorge, e perciò ama la storia dell’anello, che parla d’una verità repressa, ma ben nota nel profondo dei cuori?”. Il successo riscosso internazionalmente da Il Signore degli Anelli assume, per Zolla, il valore di controprova, di conferma del fatto che, anche nel mondo moderno, dominato dalla secolarizzazione se non da un vero e proprio ripudio del sacro, sottotraccia i grandi archetipi cristiani, i valori evangelici e una certa accezione purista del Medioevo, continuano a scuotere gli animi.
Che questa interpretazione possa essere, almeno nelle sue conclusioni, parziale, è evidente, benché ci sia più verità nelle parole di Zolla che (in parte) cristianizza Tolkien piuttosto che in quelle di chi vuole Il Signore degli Anelli svincolato da ogni messaggio spirituale, religioso o morale. In attesa della nuova serie tratta da Tolkien e prodotta da Amazon Prime, la lettura zolliana de Il Signore degli Anelli conferma una volta ancora la preminenza stringente degli archetipi nel cuore più “pop” del Novecento: l’epos di Tolkien, non meno di Star Wars di Lucas, trae la forza da una singolare commistione di archetipi che ne caratterizza le basi dell’universo narrativo, una mescolanza di immaginario “pagano” e simbologie cristiane, di iconografie sacre e di spiritualità cavalleresca. Come diceva anche Calasso, non per nulla a lungo il principale editore italiano di Zolla oltre che suo allievo, le ninfe non sono scomparse, checché ne volesse T.S. Eliot: si sono solo trasformate.
(La prefazione di Elémire Zolla al Signore degli Anelli, non più presente nelle ultime edizioni Bompiani del libro, è ora disponibile nella raccolta L’umana nostalgia della completezza, uno dei più interessanti volumi dell’opera omnia zolliana in corso di pubblicazione presso Marsilio per la cura di Grazia Marchianò)

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