Ritratto di una dea – Marlene Dietrich secondo Alfred Polgar
Marlene Dietrich non ha bisogno di presentazioni: nata in Germania nel 1901 e morta a Parigi nel 1992, dopo una carriera che aveva visto la sua âge d’or a Hollywood, la Dietrich è stata una delle più grandi star della storia del cinema, al centro di film di culto come L’angelo azzurro, Marocco, Shangai Express, L’imperatrice Caterina, Testimone di accusa e L’infernale Quinlan. Alfred Polgar, nato nel 1873 e morto nel 1955, è stato invece un significativo esponente della letteratura austriaca della prima metà del Novecento, con una carriera trasversale tra la critica letteraria, la pubblicistica teatrale e la scrittura di racconti. Dopo il Manuale del critico e Piccole storie senza morale, di Polgar adesso l’Adelphi pubblica Marlene. Ritratto di una dea, sorprendente insight sulla carriera e sulla figura pubblica di Marlene Dietrich risalente agli anni Trenta.
Ritrovato fortunosamente quasi tre decenni dopo la morte di Polgar, Ritratto di una dea era un testo su commissione, che però nasceva da una conoscenza personale e da un sincero apprezzamento di Polgar nei confronti dell’attrice. Già nelle prime pagine del testo ritrovato – non per nulla intitolate “la seconda da sinistra” – Polgar ricorda la prima volta che aveva notato la Dietrich, in uno dei suoi primi ruoli teatrali, apparentemente secondario, nella versione austriaca dello spettacolo Broadway andata in scena ai Wiener Kammerspiele nel 1927. Lì la Dietrich era semplicemente una in un gruppo di Broadway girls che fino al colpo di scena finale stavano sul palco quasi solo a danzare, ma “quella enigmatica, misteriosa bellezza, compiutamente bella anche nella figura, che nello spettacolo teatrale – una fra tante – recitava fedelmente quel che era chiamata a recitare, sbrigava la sua parte con una sorta di baldanzosa bravura. Si presentava, nel senso proprio e in quello figurato dell’espressione testa alta. Come se non avesse l’ambizione di farsi amare e ammirare – come se per lei fosse ovvio essere amata e ammirata”, rievoca Polgar. Di lì a pochi anni Marlene Dietrich sarebbe stata scelta da Josef von Stenberg come iconica protagonista de L’angelo azzurro, e il resto è storia del cinema.
Agli occhi di Polgar, Marlene Dietrich incarna un tipo di femminilità che non ha nulla a che vedere con la vamp, checché ne dicano e ne abbiano detto le riviste scandalistiche e la vulgata comune sull’attrice tedesca: Polgar associava la Dietrich al tipo “spirito della terra”, il tipo di donna “il cui sguardo ci colpisce come un richiamo, come un destino, e che sembra stupirsi di quello che combina”. Scherzosamente Polgar riferisce che gli psicoanalisti viennesi che frequentava furono costretti a vedere L’angelo azzurro perché altrimenti sarebbe mancata loro la chiave per decifrare i fantasmi erotici che immediatamente dopo l’uscita al cinema si sarebbero imposti nei sogni dei loro pazienti: Marlene Dietrich non ha inventato il sex appeal, specifica Polgar, ma sin dalle primissime apparizioni cinematografiche si è presentata come la sua più esatta incarnazione sul grande schermo. Il Ritratto di una dea di Polgar rappresenta anche una delle prime riflessioni sul rapporto tra l’immagine pubblica di una star cinematografica e la sua identità: “tra un nome – sia esso reale o inventato – e colui che se lo è ‘fatto’ si instaura del tutto naturalmente un rapporto come quello tra la moneta e il conio”, scrive Polgar nel testo. “Nel caso della Dietrich, curiosamente, è il nome di battesimo a sorreggere l’immagine della persona che lo porta. La Marlene, si potrebbe dire, è diventata molto più famosa e popolare della Dietrich”.
La pubblicazione di Marlene. Ritratto di una dea è accompagnata da un lungo saggio a cura di Ulrich Weinzierl, che ricostruisce la storia dei rapporti tra Polgar e la Dietrich e la genesi editoriale del testo, che si intreccia con i grandi eventi del Novecento. Già nei primi anni Trenta, quando entrambi vivevano a Berlino, i due avevano un documentato rapporto personale di amicizia: la Dietrich indicava i testi di Polgar tra i suoi libri preferiti e lo scrittore non mancava di farle avere, con dedica, ogni sua nuova pubblicazione. Il rispettato status di Alfred Polgar nel mondo dell’editoria e della cultura tedesca venne improvvisamente a cadere dopo la salita al potere di Hitler: ebreo, Polgar si rifugiò dapprima nella nativa Vienna, poi a Zurigo, poi a Parigi, e dopo l’invasione nazista della Francia in America dove attese la fine della guerra.
Fu in questo momento drammatico della biografia di Polgar che il critico e mecenate svizzero Carl Seelig, noto soprattutto per aver preservato e reso celebri nel mondo i testi di Rober Walser, si rivolse a Marlene Dietrich chiedendole un aiuto finanziario per Polgar che fu immediatamente fornito. Fu anche su suggestione di Seelig che nacque l’idea che Polgar potesse scrivere una laudatio per Marlene Dietrich, che gli fu contrattualizzata, dopo qualche noia contrattuale, dall’editore Wilhelm Frick di Vienna. “E dire che il pensiero di pubblicare al giorno d’oggi 150 pagine a mio nome incensando una diva del cinema mi è pressocché intollerabile, e avrei da un pezzo interrotto le trattative se la mia Lisl non mi avesse fatto notare che, nella mia situazione, non dovrei permettermi il lusso di una morale letteraria”, si lasciò andare Polgar in una lettera del periodo.
Polgar fece varie interviste alla Dietrich e le consegnò anche una prima stesura completa del testo, ma tutta l’iniziativa si concluse in un nulla di fatto a causa dell’Anschluss dell’Austria al dominio nazista e il successivo scoppio della seconda guerra mondiale: ma le aspettative di Polgar sull’opportunità economica e lavorativa rappresentata dal ritratto della Dietrich negli States non vennero a svanire nemmeno quando, riuscendo a emigrare fortunosamente negli Stati Uniti da Marsiglia, Polgar portò quest’unico manoscritto con sé. Non ci furono però ulteriori sviluppi, e Polgar negli States si guadagnò da vivere, tra le altre cose, anche revisionando e scrivendo sceneggiature per la Metro Golden Mayer. Solo nel 1984, quasi trent’anni dopo la morte di Polgar, il critico Ulrich Weinzierl, a cui si deve quest’edizione postuma, scoprì il testo nel lascito postumo dello scrittore, e si impegnò affinché venisse alla luce.
In questo contesto storico ed editoriale, Marlene. Ritratto di una dea di Alfred Polgar non può che procedere idealizzando il suo soggetto, ma, al netto dell’apoteosi delle qualità e della preminenza artistica dell’attrice che Polgar era costretto dalle circostanze a ribadire, il testo è ricco di riflessioni interessanti e sorprendenti nel chiarire le ragioni dell’importanza simbolica, sociologica e mitologica della Dietrich. “Marlene è, contratto in tre sillabe, Maria Maddalena, il nome della peccatrice del Vangelo, cui molto può venire perdonato perché ha molto amato”, scrive Polgar in uno dei passaggi più sorprendenti. “Se la vita di donna dell’artista le assicuri quel diritto marlenesco a essere molto perdonata, lo ignoro. I suoi personaggi più belli, più intensi, più intimi, e che più nitidamente riflettono l’essenza di colei che li impersona, sono però senza ombra di dubbio quelli nati sotto la stella della Maddalena, sotto la stella dai sinistri bagliori di quella Maddalena ancora pungolata dai sette demoni che ha in petto: donne per le quali l’amore è l’aria che respirano, la rinuncia un peccato contro natura, l’infedeltà un imperativo della fedeltà che esse serbano al proprio io”.
Se è vero che, come voleva Roberto Calasso, a capo dell’Adelphi fino alla sua morte nel 2021, con la secolarizzazione le ninfe della mitologia si sono trasformate nelle star del cinema in un catasterismo mainstream, non si può ignorare come la Dietrich negli anni della Seconda Guerra Mondiale abbia svolto il ruolo di benefica diva non solo a favore di Alfred Polgar, ma anche agli occhi di tutti quei soldati americani che, per radio o nelle sue tournée al fronte, la sentirono cantare la sua versione inglese di Lili Marleen, che entrò a far parte integrante della leggenda della Seconda Guerra Mondiale tanto da essere definita “la canzone che faceva fermare la guerra”. Era anche in azioni come questa che si espletava quel carattere numinoso del divismo, che il passaggio del cinema dal bianco e nero al colore avrebbe un po’ rarefatto. La carriera della Dietrich, all’apice dello star system di Hollywood fino alla fine degli anni quaranta, si concluse nel 1978, con l’apparizione di Gigolò a fianco di David Bowie, e per l’ultimo quindicennio della sua vita avrebbe evitato con cura ogni apparizione in pubblico: è anche così che si preserva un mito.
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