
The Adam Project – Quando il citazionismo è la vera trama
C’è Starlord (anche se non è Chris Pratt), munito di lightsaber, che cerca Gamora viaggiando nel tempo. Sbaglia le coordinate e si perde. Si rintana così, ferito, nel capanno di un ragazzino nerd (che altro non è che lui stesso a dodici anni), lasciato solo per una sera dalla madre uscita per cena. Alle sue calcagna un esercito di cloni senza volto, semi-cibernetici e che vengono dal futuro per ucciderlo. Il bimbo nerd e il viaggiatore temporale sono quindi costretti a spostarsi ancora nel tempo per andare a trovare Hulk, che insegna fisica all’università e che li aiuterà a salvare il mondo.

Lo scorso 11 marzo è stato reso disponibile alla visione su Netflix The Adam Project, il nuovo film di Shawn Levy con Ryan Reynolds (i due, dopo Free Guy, lavoreranno nuovamente insieme entro la fine dell’anno per Deadpool 3) che si presenta, senza alcuna remora, come un condensato di citazionismo più o meno spinto alle produzioni audiovisive che hanno costituito il nostro immaginario collettivo come spettatori nell’ultima manciata di decadi. C’è di tutto: una spruzzata di James Gunn (I guardiani della galassia), un tocco di Spielberg (E.T. – L’extraterrestre), un pizzico di Chris Columbus (Mamma ho perso l’aereo), qualche cosa di James Cameron (Terminator) e quel tanto che basta di George Lucas (Guerre stellari). Il citazionismo è qui giocato certamente su di un piano formale ed estetico — com’è comune — ma anche su di un piano decisamente più profondo. Pare essere infatti la matrice narrativa stessa dell’intera operazione. Ma c’è dell’altro.
Come già accaduto in Avangers – Infinity War, in cui i personaggi si spiegavano tra loro (e spiegavano quindi a noi spettatori) le leggi che regolavano i viaggi temporali nel loro mondo, utilizzando come metro di paragone un film capolavoro sul tema come Ritorno al Futuro e dicendosi(ci) in pratica «Vedi, qui non è come lì»; in The Adam Project, senza che vi sia una citazione tanto esplicita, viene fatto lo stesso con Avengers – Infinity War in riferimento al lì già visto multiverso.

The Adam Project è un film che sembra essere uscito dagli anni ’80 in tutto: a livello produttivo, di lavoro sullo star-system, narrativo ed estetico. È un prodotto audiovisivo di massa, per la massa. È nazional-popolare e non ha alcun problema con la propria natura. In questo senso l’ascendente spielberghiano non è solo estetico o narrativo, ma anche etico.
Assistiamo infatti da diversi decenni a dei blockbuster in crisi ontologica: sono blockbuster e lo sanno, ma non vogliono ammetterlo. Il problema nasce probabilmente da lontano, ma ha una manifestazione piuttosto emblematica nella run batmaniana di Christopher Nolan e nella fantascienza di Denis Villeneuve, ad esempio. Basti pensare al suo Blade Runner 2049: un film che fa dell’andare contro ad un cliché narrativo la sua unica ragion d’essere a livello drammaturgico. Il prescelto che deve non esserlo ad ogni costo. Il film per tutti che deve non esserlo a tutti i costi, autosabotandosi, in questa crisi del modello statunitense che si è infine accartocciato su sé stesso: l’imperialismo del mercato e della politica, che era quello dell’immaginario.

In The Adam Project c’è un set-up di cinque minuti (cronometrateli) in cui vengono urlate in faccia agli spettatori le condizioni di partenza del mondo del racconto e dei suoi personaggi. Nessuno nel film o intorno al film pare avere alcun dilemma etico rispetto a questa cosa: il prodotto audiovisivo non è importante per tutti allo stesso modo, guardando un film si può pure stirare. In molti dovremmo fare pace con questo.
E non è un caso forse che un approccio simile venga da uno degli artisti che hanno lavorato a Stranger Things (qui la nostra recensione della terza stagione, in attesa della quarta). Rapporto analogo, se non identico, quello tra The Adam Project e il citazionismo e la serie nata dalla penna dei fratelli Duffer. Approccio simile anche quello politico nei confronti di tutto ciò che è blockbuster. I Duffer e Levy non si sentono affatto in colpa a fare roba per tutti, anche perché in questa roba per tutti ci puoi infilare dentro, per esempio, una grande riflessione su che cosa sia la memoria. Uno stesso ricordo condiviso, a seconda del racconto che ci tessiamo intorno, può avere significati differenti. Una rete contro cui tirare la palla da baseball e che te la rispedisce al mittente può essere il regalo di un padre assente o di un padre amorevole. È sempre il racconto che scegliamo di fare (o di farci) a produrre la nostra identità. Quella individuale e quella collettiva.
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