
Free Guy – Il videogioco come esperienza umana
Nonostante il videogioco sia per definizione “gioco”, la dimensione del gaming è da trattare con estrema cura e da prendere molto sul serio. Forse per questo è così rischioso produrre film basati sui videogiochi, specie se relativi all’ambito e non semplicemente tratti da un’opera specifica. La nuova produzione Disney Free Guy, film diretto da Shawn Levy e distribuito su Disney+, si assume prima di tutto il rischio di scontrarsi con una cultura dalle strutture ben definite, in cui ogni stortura e banalizzazione scatena subito gli spettatori più appassionati. Free Guy però, al netto di una narrazione che non sempre brilla per acume e a tratti rischia di scivolare nell’imbarazzo, gioca più che bene le sue carte, indovinando anche qualche idea che val la pena discutere e configurandosi come la perfetta sonda per stabilire la posizione del videogioco nella cultura di massa.

Innanzitutto, in Free Guy si esercita una piccola rivoluzione copernicana del punto di vista canonico del videogioco di ruolo e del film ambientato “dentro” di esso che non può non stuzzicare almeno un pochino. Solitamente lo spettatore entra nel videogioco seguendo le vicende di un agente esterno, entrato di sua volontà o intrappolato in esso e alla ricerca di una via d’uscita. È, diciamo, il meccanismo narrativo alla base di Ready Player One (S. Spielberg, 2018) o della fortunata serie anime Sword Art Online, prodotta da A1-Pictures dal 2012: allineando lo spettatore agli occhi dell’eroe catapultato in un videogioco è facile giustificare la narrazione esplicita di un worldbuilding, al contempo sfruttando il sempreverde meccanismo del tuffo nel mondo fantastico. Free Guy rispetta negli effetti questo stratagemma narrativo, ma in teoria lo fa solo in parte: il protagonista della storia è infatti un NPC, ossia un non-player character, un personaggio creato artificialmente per popolare un mondo di gioco senza essere controllato da un giocatore. Guy – così si chiama il protagonista interpretato da un Ryan Reynolds sotto acidi – è l’anti-protagonista per definizione, creato appositamente per essere relegato ai margini dell’universo, una semplice comparsa che riesce a liberarsi dalle catene (ultra)deterministiche che il codice di gioco gli impone grazie alla rivoluzionaria intelligenza artificiale di cui è dotato.

Nella routine castrante e schiavile di Guy è impossibile non scorgere una facile metafora del colletto bianco americano, incatenato a una vita ripetitiva e monotona voluta dal modello capitalista imperante. Un tema che probabilmente il film non cerca di suggerire con grande convinzione ma che, se aggiunto al già citato Ready Player One, porta a chiedersi se il videogioco – nello specifico il mondo alternativo dei giochi di ruolo di massa online – non sia in effetti un ricco strumento metaforico della società capitalistica. Più evidente è invece la critica mossa alle case di produzioni dei videogiochi, di recente attaccate per aver spesso ragionato da industria anziché in favore dei creativi. Se da una parte il personaggio di Guy conduce la sua virtuale autoaffermazione, nel piano narrativo del mondo reale avviene il conflitto tra il proprietario del videogioco, un insospettabile Taika Waititi, e due giovani programmatori che ritengono che il videogioco Free City, il mondo di Guy, sia in realtà strutturato sul codice “rubato” di una loro creazione.
I due giovani rappresentano la parte indie e idealista dell’industria del videogioco, contrapposta a una gestione spietatamente commerciale delle produzioni. Per un comune spettatore questo conflitto può voler dire poco o nulla, ma chi segue il mondo del videogioco avrà sicuramente pensato all’ormai assodato dualismo tra opera autoriale e giochi creati esclusivamente come machine per spremere soldi al grande pubblico, oppure alle pressioni che i creativi subiscono da parte di produttori e investitori: si pensi per esempio al caso di Cyberpunk 2077 (2020), pubblicato con largo anticipo a seguito delle pressioni del mercato, anticipo che ha portato un titolo carico di aspettative ad essere respinto con violenza dal pubblico e dalla critica per il suo grave stato di incompletezza (tanto da renderne impossibile l’utilizzo su alcune console, con conseguente ritiro parziale dal mercato).

I piani narrativi di Guy e dei suoi creatori verranno infine a congiungersi, offrendo uno sguardo speranzoso verso il futuro degli sviluppatori indipendenti, al contempo proponendo una sorta di estensione del diritto alla vita a intelligenze artificiali sviluppate e autonome, pur abitanti di una dimensione diversa dalla nostra. Con – qui duole dirlo – il classico finale che invita le persone a vivere “nella realtà” e non nel virtuale. Un peccato, visto che il film pare al contrario suggerire a più riprese che la dicotomia reale/virtuale è ingenua e che il virtuale è solo una forma possibile del reale.
Da sottolineare infine è lo sforzo di costruire attorno alla vicenda quella che è la cornice tipicamente contemporanea del mondo del videogioco. Per quanto detto, va da sé che gli utenti con cui interagisce Guy sono giocatori in carne ed ossa, mediati da monitor, mouse, tastiera e un avatar – siamo felici di non vedere come al solito stucchevoli costumini e visori per l’immersione nella realtà virtuale. Fra i giocatori spiccano anche alcuni camei di famosissimi streamer, figura professionale tra le più giovani e impattanti nel mondo del videogioco: abbiamo i contributi di Imane “Pokimane” Anys, streamer tra i più importanti al mondo, spesso tra i volti di spicco delle evoluzioni sociali e professionali in atto sulla principale piattaforma di streaming Twitch, e soprattutto Tyler “Ninja” Blevins, il più ricco e affermato streamer al mondo. Pochi secondi che bastano a conferire credibilità al mondo costruito da Free Guy, visto che di fatto il videogioco è ormai divenuto inscindibile dalla sua massiccia condivisione online.

È chiaro che Free Guy non è un film rivoluzionario e ha giusto una o due intuizioni narrative da vantare; piuttosto, è un film che quel che ha da dire di interessante lo racconta nel modo giusto, con un ritmo brillante e mai noioso. Ma dalla visione è importante soprattutto rilevare quanto la cultura del videogame sia maturata negli ultimi anni, in particolar modo il fatto che finalmente è possibile comunicare al grande pubblico una narrazione basata sul mondo videoludico reale sapendo di non risultare di nicchia o peggio ancora inaccessibili. Free Guy è una (divertente) prova del fatto che siamo sempre più vicini a considerare il videogioco non come una subcultura ma come una cifra dell’esperienza umana che, in diversa misura, appartiene a ognuno di noi, dal pro player di League of Legends al pensionato che ammazza il tempo con Fruit Ninja.
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