
Macbeth – Joel Coen porta l’eleganza del teatro al cinema. E non stanca
Mettiamo da parte il Macbeth di Welles, Kurosawa, Polański. Non perché non meritino di essere visti, ovviamente. Ma perché il Macbeth di Joel Coen distribuito su AppleTv+ va guardato così, con occhi vergini, perché dentro ha tutto e tutto è perfettamente funzionale alla sua narrazione.
The Tragedy of Macbeth, questo il titolo originale, è uscito lo scorso 25 dicembre in alcune sale statunitensi e dal 14 gennaio è disponibile su Apple TV+ anche in Italia. Il cast vanta attori come Denzel Washington, Frances McDormand e Brendan Gleeson, e tutto porta la firma di Joel Coen, nome che siamo abituati a vedere accompagnato da quello del fratello Ethan, il quale però sembrerebbe volersi prendere una pausa dal grande schermo.
Così è arrivato in un colpo solo un prodotto completo: un film da cinema con nomi che fanno da garanzia, con dentro tutto il teatro che ci si poteva incastrare, distribuito su una piattaforma streaming. Interessante e di facile fruizione. Eppure perché dovremmo voler guardare un prodotto con una trama che la maggior parte di noi già conosce, di cui già esistono innumerevoli versioni e del quale è già stato sperimentato l’adattamento dell’opera teatrale alle esigenze cinematografiche?
Per tre motivi.

Uno – Joel Coen non è Shakespeare, ma Macbeth è un personaggio dei fratelli Coen
Per chi non la conoscesse, la tragedia racconta di Macbeth, generale di Scozia e cugino del re Duncan, che mentre torna vincitore dalla guerra insieme al suo pari Banquo, incontra tre streghe. Le streghe a quel punto fanno tre profezie: dicono che Macbeth sarà signore di Cawdor, poi ancora re e che Banquo darà vita a una lunga dinastia regale. Una volta tornati al palazzo, Macbeth viene nominato signore di Cawdor, comprende che le previsioni delle streghe si stanno avverando e dà il via alla sua corsa al potere: insieme alla moglie Lady Macbeth, escogita un piano per uccidere il re e realizzare anche la seconda profezia. Inizia così un tragico ed esagerato susseguirsi di eventi che porterà a morti, incomprensioni, follie.
In poche parole quella di Macbeth è la storia di una decisione dettata da istinti egoisti e del climax di conseguenze che ne derivano. Non sembra forse la possibile trama di un film firmato dai fratelli Coen? In fondo è così che si potrebbe riassumere anche Non è un paese per vecchi. E probabilmente è proprio per questa vicinanza tra la storia scritta da Shakespeare e lo stile del regista e sceneggiatore, che Joel Coen riesce a mostrare tutte le sfumature di Macbeth, il guerriero valoroso e l’uomo vulnerabile, l’istinto ragionevole e quello irragionevole, la pazzia e infine la superbia. Per cui quando arriva il momento del famoso «Domani, domani e domani…» noi ascoltiamo Denzel Washington parlare e quasi ci dimentichiamo di aver sentito quel monologo già centinaia di volte.

Due – L’estetica conta, racconta e non è mai uguale a quella della versione precedente
Il bello del cinema è la possibilità di parlare attraverso tutti gli elementi che compongono un’immagine e un suono. È lo studio di questi elementi che rende ogni film unico e che ci permette di valutarlo come più o meno riuscito. Nel caso di Macbeth, è tangibile l’attenzione ai dettagli e lo studio degli attori dietro la preparazione del film. Tutto suggerisce teatralità e finzione, tanto che si ha l’impressione di guardare uno spettacolo dal vivo piuttosto che un lungometraggio, e questo può rischiare di annoiare lo spettatore che si aspetta il cinema. Sta quindi allo spettatore raccogliere tutti gli indizi che Joel Coen e il suoi collaboratori hanno disseminato lungo il film, in modo da poter godere della loro opera.
Il primo indizio è l’aspect ratio: non il 16:9 che siamo abituati a vedere oggi ma il 4:3, che stringe la visuale e la fa apparire più claustrofobica, chiusa e appunto finta. Il secondo indizio è la scelta del bianco e nero che da sempre colleghiamo al vecchio cinema, quello con le voci degli attori registrate in modo innaturale e delle dissolvenze per il cambio scene (elemento che ritroviamo anche in questo caso). Il terzo è la scenografia spoglia ed essenziale. La storia è ambientata nel basso medioevo eppure nulla al di là degli abiti ce lo ricorda. Anzi, le stanze sono vuote e riconoscibili solo da un unico elemento che compare nel campo visivo, per cui sappiamo ad esempio che la scena si svolge in camera da letto perché nello spazio vediamo un letto. E basta.
Il quarto indizio, il più preciso, è l’uso della luce a cura di Bruno Delbonnel (Il favoloso mondo di Amélie) che spinge i chiaroscuri al punto da non mostrare mai i volti completamente illuminati e da creare in ogni inquadratura dei quadri artificiali che ci fanno sentire dentro a un dipinto di De Chirico. Esteticamente bellissimo.

Tre – L’interpretazione dei personaggi è da premiazione e, in fondo, è divertente
Se tutto è teatrale, lo è anche l’interpretazione degli attori che si muovono in movimenti simili a danze ed esagerano le espressioni facciali in modo innaturale. E diciamolo che queste caratteristiche del teatro sono quelle che più si contrappongono alla natura del cinema, e che quindi ci divertono persino quando guardiamo una tragedia. Di sicuro dietro alle riprese si nascondono mesi e mesi di prove e perfezionamento, e se Denzel Washington è candidato agli Oscar per il suo Macbeth, una citazione la merita senza dubbio Kathryn Hunter per la sua interpretazione delle tre streghe. Il perché sarà chiaro guardando il film, non rischieremo spoiler.
Tre motivi sono più che sufficienti per non perdersi il nuovo film di Joel Coen, ma se non dovessero bastare, consiglio comunque di fare un salto nel vuoto e provare a schiacciare il tasto play, Macbeth è da vedere. E dura il giusto (105 min).
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