
I Mitchell contro le Macchine – Sony sorprende all’insegna della contemporaneità
Stupisce e fa molto parlare di sé il lungometraggio animato I Mitchell contro le macchine, prodotto da Sony e distribuito da Netflix: un film non solo ben realizzato da un punto di vista tecnico, con una mescolanza di stili grafici accattivanti e un ritmo serratissimo in grado di acchiappare subito lo spettatore incollandolo allo schermo, ma anche foriero di messaggi profondi e difficili da trattare senza scadere nel banale, nel già visto o più fastidiosamente nel paternalistico.

Il tema trattato è quello dell’iper-connessione (il titolo originale, poi cambiato, era infatti Iper–Connected) che rischia di far prestare più attenzione ai dispositivi e ai contenuti digitali rispetto alle persone fisiche, abitudine talmente radicata che, nel film, viene messa in pratica anche nei confronti dei propri familiari. Lo spasmodico bisogno di connessione e l’iper tecnologizzazione portano un programmatore (Mark, casualmente omonimo del più famoso Zuckerberg) a creare una versione umanizzata dei cellulari, dei robot super intelligenti che si ribellano al loro creatore e tentano di schiavizzare e distruggere l’umanità; gli improbabili Mitchell, famiglia tanto anomala quanto paradossalmente normalissima, dovrà trovare il giusto compromesso per salvare il mondo attraverso un gioco di squadra che porterà a mitigare le divergenze tra padre – analfabeta digitale e amante dell’avventura – e la figlia Katie – youtuber creativa e incompresa che ha trovato nella piattaforma video la sua “tribù” – in quello che si profila essere a tutti gli effetti un road-movie.

L’apocalittica ribellione tecnologica non costituisce nulla di nuovo, dunque; il tutto è però trattato con una rara freschezza e con tono ironico e lucido, tali da far apprezzare il film con tutte le sue molteplici sfumature proprio – e soprattutto – ad un pubblico adulto: l’incomunicabilità familiare che caratterizza i Mitchell è infatti in realtà la risultante di un gap generazionale, in cui spesso gli adulti, per la mancanza di competenze digitali, faticano ad entrare nel mondo dei giovani, situazione che porta inevitabilmente ad una mancata condivisione culturale. Il conflitto generazionale si sostanzia dunque in primo luogo di questioni tecniche, a cui seguono effetti collaterali tratti con freschezza e profondità ma senza pedanteria, con una formula inedita e potente.

Capeggia su tutto la coerenza: non solo nel messaggio portato avanti, ma anche tra forme espressive e contenuto, dai titoli di testa fino a quelli di coda, che lo spettatore si ferma a guardare più che volentieri. Se tra i contenuti del lungometraggio c’è proprio quello dei video youtube, a cui la protagonista lavora, il film appare proprio come un video youtube in formato gigante, con inserti di meme e immagini virali massivamente riconoscibili, che entrano nella narrazione come uno squarcio di realtà, creando talvolta dei cortocircuiti. Concorrono a questo effetto un ritmo vorticoso e ipnotico, a cui si sommano stili rappresentativi differenti: colorati inserti grafici in 2D, animazione 3D e riferimenti a icone mediali contemporanee, reperibili dallo spettatore sulle principali piattaforme video. L’effetto per lo spettatore è quello di sentirsi bombardato e catturato all’interno della narrazione, senza che però ne esca infastidito: Michael Rianda dirige il tutto con intelligenza e sagacia, dosando gli elementi per un risultato al tempo stesso tenero e brillante. Il regista ha dedicato infatti il risultato del lavoro alla sua famiglia, da cui ha tratto ispirazione: ne emerge un film personale e universale assieme, commovente e al contempo divertentissimo grazie alle brillanti gag comiche – indimenticabili i robot guasti e la scena con i Furby.

Colpisce poi la caratterizzazione dei personaggi: tutti riescono ad avere tridimensionalità e funzione, dai caratteri principali al divertentissimo cane di famiglia. Persino i Posey (altro nome parlante), la famiglia tanto fotogenica e invidiata per la coesione e la perfezione ostentate sui social network, ha un’identità nella sua piattezza e artificialità, nel porsi come contraltare dei Mitchell, sgangherati e disorganizzati, ma vivi e vibranti.
Non si tratta di un film esente da difetti: forse un finale che si trascina verso la conclusione allungandola un po’ troppo, facendo raggiungere al lungometraggio una durata di due ore, insieme a qualche momento poco incisivo qua e là. Nulla di grave, però: i pregi sono largamente maggiori dei difetti e il linguaggio visivo attuale e fresco, che ragiona sulla contemporaneità utilizzandola a piene mani, le gag divertentissime a smorzare i momenti di più alta tensione e la profondità della narrazione, rendono il film non solo godibile ma anche imperdibile. Se dunque ancora non l’avete fatto, date una possibilità ai Mitchell contro le macchine: non ve ne pentirete.
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