
No Time to Die – Le immagini che non muoiono
[Attenzione questo articolo contiene spoiler]
Sempre muore e mai non finisce di morire colui che ad amore si fa soggetto.
Matteo Bandello, Novelle
Cos’hanno in comune Qui rido io di Mario Martone e No Time to Die? Entrambi avvitati in una dialettica tra tradizione e innovazione, sacro e profano, padri e figli, hanno al centro la trasformazione di un iconoclasta in mito. Vale tanto per Eduardo Scarpetta, simbolo di un teatro popolare che il commediografo ha rinnovato fino a diventarne egli stesso il modello da superare, quanto per il Bond di Craig, la cui rottura con la tradizione assurge ora a classico. Difficile diventare eterni senza aver raggiunto l’apoteosi; senza un’eredità da tramandare affinché, un giorno, possa essere tradita. Dunque, senza morire. Sentenzia Omero nell’Iliade: «Anche il potente Eracle, favorito di Zeus, non scampò alla morte». Lampante allora il riferimento mitologico del Progetto Heracles, il nome del virus che minaccia l’umanità in No Time to Die. Ma non tanto per il mero finale del film di Cary Fukunaga, i cui nessi con la morte dell’eroe greco, raccontata nella Trachinie di Sofocle, si fanno evidenti, – per intenderci, nella tragedia sofoclea, il semidio viene ucciso da una veste avvelenata di cui è impossibile liberarsi, per mano di un nemico defunto e tramite un inganno amoroso. Piuttosto, per il fatto che l’intero ciclo bondiano dell’“Epoca Craig” è un confronto con la caducità a cui le icone sono soggette per definizione, e quindi con la necessità di costruire nuovi miti sulle macerie dei precedenti.

L’importanza del ciclo Craig non sta solo nell’avere demistificato l’immaginario bondiano, ma nell’essere riuscito a rifondarlo. E il film di Fukunaga compie proprio quest’ultimo passaggio, con un coerente ribaltamento di prospettiva rispetto al percorso avviato nel 2006. No Time to Die non ci ricorda solo che per ogni Ozymandias esiste una rovina, ma anche che il sacro nasce dal profano, che l’ortodossia spesso passa dall’eresia, che ogni icona avrà il suo rogo per lasciare posto ad altre icone ed altri roghi, come quello su cui soccombe lo stesso Eracle, prima di eternarsi a olimpica gloria. Se infatti Skyfall ci costringeva a muoverci tra i detriti di un mondo parco di idoli e ideali, No Time to Die si chiude con l’apoteosi del nuovo Bond, con la sua consacrazione a mito. E che cos’è, letteralmente, un mito se non un racconto da consegnare ai posteri, come quello che nello struggente finale Madeleine (Léa Seydoux) narra alla figlia? Non è dunque un caso che sia proprio No Time to Die il film più citazionista della saga, quello ormai più consapevole di poter opporre, ben lungi da uno stucchevole effetto revival, la propria visione, livida e crepuscolare, al modello dei vari Connery e Moore senza temerne il confronto. Uno dei rari casi, per un franchise cinematografico di tali proporzioni, in cui (finalmente!) il riferimento al passato serve ad affermare l’avanzare del futuro.

We have all the time in the world / Time enough for life to unfold / All the precious things love has in store
La vera rivoluzione degli ultimi cinque film della saga, quella da cui è dipeso ogni sviluppo, è stata infatti introdurre nell’universo bondiano il tempo come concetto, il grande tabù esorcizzato fino all’epoca di Craig. Se prima Bond non invecchiava mai – nonostante invecchiassero in modo evidente i suoi interpreti –, era dunque la morte stessa ad essere assente, edulcorata o comunque mai capace di lasciare un solco profondo, (con l’eccezione, certo, di Vendetta privata, forse il Bond più brutale di sempre, e soprattutto di Al servizio segreto di sua maestà, al cui spirito melodrammatico si richiama fin da subito No Time to Die sulle note di We Have All the Time in the World). Il Bond di Craig, invece, nato dalle ceneri ancora calde dell’11 settembre, con la morte ha subito dovuto fare i conti e nel modo più traumatico, scavando ferita sopra ferita e infrangendosi di volta in volta come uno specchio in frantumi le cui schegge sarebbero tornate a tormentarlo. Mai come in No Time to Die, che abbraccia addirittura tre archi temporali e comincia all’interno di un incubo dal passato (con tanto di jumpscare), l’ossessione per il tempo e per le immagini è stata così centrale, a partire appunto dal flashback della sequenza introduttiva, in cui per la prima volta Bond è assente. Ed è infatti proprio a queste immagini che non muoiono mai che si tenta disperatamente di dare la morte, nonostante sembrino le uniche a poter vincere l’entropia cui soccombono così facilmente i corpi.

Immagini che si insinuano sottopelle per sempre come il virus Heracles, immagini che, come un virus, infettano e corrodono, allontanano gli affetti e distruggono legami, mentre lentamente si consuma un tempo che non è mai abbastanza ma è tutto ciò che abbiamo – per inciso, sì, è davvero stupefacente pensare al contesto in cui è nato il film, girato poco prima della situazione emergenziale e più volte rimandato a causa della pandemia, ma è anche la riprova di quanto, volente o nolente, mai come ora Bond sia stato capace di incarnare lo spirito dei tempi.

We were a pair / But I saw you there / Too much to bear
In un ciclo bondiano infestato da occhi digitali, scanner, immagini duplicate, schermi a profusione vertiginosa, dispositivi di sorveglianza informatica, No Time to Die non può allora che chiudere, quella che sembra una lotta delle immagini, il vero terreno su cui si gioca la missione dello 007 del terrorismo informatico e dei fantasmi del “post 2001”, con un finale che sembra chiederci e chiedere al cinema quanto siano ancora capaci oggi le immagini, nella loro proliferazione incontrollata, di lasciare un segno nella memoria spettatoriale, di imprimersi con forza nell’immaginario collettivo. Chissenefrega allora se No Time to Die è un film dalla scrittura non sempre efficace, se il suo impianto narrativo può risultare a tratti farraginoso e se non tutti i personaggi hanno avuto l’approfondimento che meritavano – a differenza di quanto sostengono i più, va detto che Rami Malek funziona benissimo come villain; il suo non è un problema di casting né di interpretazione ma semmai di mancato sviluppo narrativo. Non importano quindi le singole – e oggettive – crepe. Tutto ciò scompare di fronte a un finale shakespeariano di grande potenza emotiva che forse mai ci saremmo aspettati di vedere persino in un Bond di Craig, per quanto comunque coerente con tutto quanto è stato fatto fino a questo epilogo.
Il discorso sull’immagine tocca infatti quello sull’icona in una conclusione che osa proprio sul terreno più squisitamente visivo, costringendoci a vedere quanto non avremmo mai pensato di poter vedere, a una serie di frame dolorosissimi («too much to bear»), ma appunto capaci di imprimersi sottopelle, in cui iconoclastia e consacrazione coincidono paradossalmente. Un ultimo atto, anzi l’ultimo atto, in cui questo Bond può finalmente raggiungere la sua apoteosi, dopo l’ultimo rogo, dopo aver bruciato tutte le immagini che restavano da bruciare. E basta questo. Questo e i primi piani sugli occhi di Léa Seydoux.
We will miss you, Mr. Craig.
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[…] «Abbiamo tutto il tempo del mondo», dice Bond alla sua Madeleine sulle note di Louis Armstrong. Come a dire che di tempo non ce ne sarà mai abbastanza, dal momento che la vera rivoluzione del ciclo di Craig è stata proprio quella di avere introdotto una temporalità forte in un immaginario che sembrava impermeabile al concetto di entropia. Se dunque la saga inaugurata dal reboot di Casinò Royale si è imposta come un continuo confronto con la morte e con la caducità di miti e icone, No Time to Die tira le somme di questo percorso con un epilogo che è una riflessione sul rapporto tra iconografia e iconoclastia, un confronto tra l’immortalità di certe immagini e la mortalità della carne, ma soprattutto uno struggente melò che porta la saga di 007 a livelli di epicità mai raggiunti. Riccardo Bellini / Leggi la recensione […]
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