
Atlantide di Yuri Ancarani | Venezia 78
Il barchino, il mezzo tanto usato dalle nuove generazioni di veneziani per sfrecciare sulle acque della laguna, oltrepassare limiti di velocità consentiti, festeggiare, scappare dalla guardia di finanza con pacchi di fumo sotto al sedile, è il centro, certamente originale, potenzialmente dirompente, del nuovo progetto, presentato nella sezione Orizzonti, del video-artista di Ravenna, con residenza da anni a Milano, Yuri Ancarani: Atlantide, come l’isola leggendaria di una civiltà smarrita. Daniele, Maila e gli altri adolescenti piloti di barchini, fantasmi di una Venezia sconosciuta, fanno parte di questa civiltà muta, differente dai soliti reiterati scenari periferici romani, napoletani o milanesi.
Il film non parla, o parla poco in veneziano strascicato, quasi incomprensibile, nasce senza sceneggiatura e romba di motori di diverse taglie con cui i giovani, esseri lagunari fantastici, si confrontano in gare ad alta velocità nel buio torbido dei canali e delle insenature, rimbomba di beat trap, pezzi di trance elettronica realizzati da Sick Luke, Lorenzo Senni e Francesco Fantini, il cui lavoro, oltre ai dettagli di scarti di un’umanità quasi segreta (le carte stropicciate del Kinder Pinguì!), immergono lo spettatore, con intenti direi etnografici, in una realtà spesso trascurata.

Come in molte opere presenti in questa edizione veneziana (basti pensare a Californie e Il palazzo) Ancarani innesta sulla materia documentaristica, da antropologo, la materia della finzione: in questo modo nei frammenti di frasi strappate da quotidiane conversazioni, nelle lunghe sequenze di corse in barchino si inseriscono amplessi amorosi fittizi, luci artificiali, litigi riscritti e rivissuti ma presi, molto probabilmente, da esperienze reali. La video-arte sorpassa il documentario, le volontà – o velleità – artistiche del regista sembrano, alla lunga, invadere lo spazio del racconto – in verità non-racconto –, sembrano scaricare la potenza delle immagini, invertirne il segno fantastico, come accade nella brutta scena, perché banale, del giro in barca di Daniele e la nuova ragazza.
Perché il problema del film è la sua pretenziosità di non congiungere, di balzare con reticenza da un’inquadratura all’altra con un montaggio che vorrebbe sospendere lo spettatore in un’atmosfera irreale ma fa soltanto danni: crea buchi, disunisce, respinge. Perché la sua convinzione di raccontarsi da solo nella bellezza, questa davvero eccezionale, della sua fotografia, ottenuta con la luce zenitale come unica fonte di illuminazione – con conseguenze figurative suggestive di riflessi e riverberi – non basta. Questo progredire vuoto, indifferente all’effetto empatico del pubblico verso i personaggi (non ho sentito nulla dell’intesa creatasi durante le riprese raccontata, un po’ spocchiosamente, a fine proiezione) raggiunge il suo apice nei quindici minuti finali, nel piano sequenza inclinato di quarantacinque gradi che avanza sotto i ponti dei canali veneziani fino a sfociare nel mare colorato, per la prima volta nel film, dalla luce crepuscolare, in un facile schematismo simbolico e cromatico tra uscita dall’adolescenza e fotografia (senza contare quello tra velocità incise su una bricola e crescita personale).

Atlantide sfiora, oscillando come su un barchino, gli stilemi del videoclip musicale, la cronaca nera, ossia le numerose morti in mare causate dall’impatto dei barchini contro bricole spezzate e galleggianti in superficie (nonché lo spunto del film), il romanzo di formazione colto nel suo farsi e distruggersi, la video-arte e, ovviamente, il documentario. Ma resta sfortunatamente e gravemente incompiuto, irrisolto. Ancarani ha sprecato la possibilità di fare uno dei film più belli della Mostra.
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