
Film e intelligenza artificiale – Cinema Futuro di Simone Arcagni
A brevissimo, per i tipi di Nero Editions uscirà il libro Cinema futuro di Simone Arcagni, professore Associato presso l’Università di Palermo e studioso di cinema, media, nuovi media e nuove tecnologie. Abbiamo l’opportunità di farvi leggere in anteprima un paio di capitoli dedicati all’intelligenza artificiale: Jan Bot e Zone Out.
Jan Bot. Ciao! Sono un robot e sono un regista
Queste osservazioni mostrano come il sistema nervoso, se visto come un automa, debba assolutamente avere una componente aritmetica oltre che una componente logica e come in esso i requisiti aritmetici siano tanto importanti quanto quelli logici.
John von Neumann, Computer e cervello
Jan Bot non è che un algoritmo. «Intelligente», sì, ma pur sempre un algoritmo. In azione all’interno dell’Eye Filmmuseum di Amsterdam, produce ben sei film al giorno. Sostituisce e condensa in sé professionalità come quella dello sceneggiatore e del regista, e riesce a fare a meno di tutti i tecnici e di tutti gli attori. Come fa? In primo luogo scova dalle fonti che gli sono state sottoposte, come giornali, social network e siti di informazione, i trend topic del giorno, poi sonda il database di riferimento, ovviamente digitalizzato (e cioè l’archivio dell’Eye Filmmuseum, che in gran parte è dedicato al cinema delle origini), e cerca, applicando un modello semantico utile a rintracciare contenuti che rimandino alle parole-chiave del giorno. A questo punto, dopo la fase di ricerca semantica, Jan Bot raccoglie le occorrenze, insomma: preleva i film, li «guarda», e procede a effettuare i tagli di montaggio in modo da creare un breve video di 30 minuti che viene postato sul sito del museo. Jan Bot, come si diceva, è un algoritmo di intelligenza artificiale, ed è stato creato da Pablo Nunez Palma e Bram Loogman e prodotto da Mirka Duijn usando alcuni tool liberi di computer vision e language analysis.
Si tratta, ancora una volta, dell’applicazione di una serie (seppure complessa) di valichi tra «sì» e «no», tra «acceso» e «spento», «se» e «o», «0» e «1», ovvero la materia prima del DNA digitale. L’intelligenza per ora sceglie e seleziona su una base di riferimenti ridotti, ma nulla ci impedisce di immaginare cosa potrebbe fare connettendosi a grandi repository di data: basterebbero già soltanto i social network, nei quali la libertà di interpretare nessi visivi e tematici, di collegare parole e frasi sarebbe talmente ampia e complessa da portare a due risultati: il primo sarebbe quello di inventare il cinema sperimentale definitivo. «Sperimentale» proprio nella sua conformazione etimologica, nella sua pratica ancestrale e nel suo significato più puro, in quanto ogni mossa è un esperimento rispetto a una ridda di operazioni possibili e irripetibili in sequenza (anche perché nel digitale la sequenza non è mai lineare, ma discreta, e perciò si schernisce alla ripetizione di stringhe). Il secondo risultato è di far diventare il cinema il prodotto di una black box perfetta, tanto vasta e impossibile che solo il training la può modellare, ma non può essere capita, compresa, riprodotta. Con black box si intende infatti il luogo della processazione pura, lo spazio tra l’input e l’output che tende a divenire sempre più misterioso. Si tratta del lavoro che la macchina fa tra l’elaborazione dei dati e il risultato finale. E tutto quello che sta nel mezzo? Spesso non riusciamo a ricostruirlo. Troppe informazioni, troppi passaggi, troppi calcoli, ma è proprio in questo processo imperscrutabile che potrebbe risiedere il prossimo cinematografo. E come prima conseguenza avremmo che sarebbe di fatto possibile ottenere dei film personali, costringendo il cinema e i suoi immaginaria una personificazione totale, a una individuazione atomizzata e sempre irripetibile. Sarebbe quindi un cinema senza critica cinematografica e senza la storia del cinema, un cinema sempre nuovo e sempre presente, proprio perché proiettato nel futuro. Jan Bot rappresenta così la vertigine di un cinema perennemente illibato, che potremmo definire «post-postmoderno» se solo al suo avvento avessero ancora significato le definizioni di «post» e di «moderno». Parliamo di un cinema perennemente attuale, persino prima dell’attualità stessa.
L’intelligenza artificiale apprende cos’è il cinema mentre lo fa, e quindi si presenta come un cinema nel suo perenne farsi, anche se non inventa niente, se non crea immagini, se non genera film. Vive di scarti di cinema, della sua storia del cinema, degli archivi, di critica, e lo fa proiettando tutto nel futuro. Essendo una macchina, non può provare nostalgia, ma svolge il suo ruolo nella consapevolezza del fatto che il cinema è semplicemente un linguaggio che non è necessario riscrivere ogni volta, ma che può anche essere semplicemente riprogrammato.
Jan Bot è il cinema come programmazione, come risultato di un’operazione che sta a monte del produttore e del regista e che sostituisce entrabi. Colui che conta davvero è il programmatore che assume il ruolo di una sorta di «occhio di dio» che impartisce le regole fondamentali, dettandole all’interno di un quadro programmabile anche piuttosto rigido. In fondo è quello che abbiamo già descritto con l’operazione cinematografica di Ian Cheng. L’operazione Jan Bot è però quella di far saltare i ruoli, assumendo che il ruolo della programmazione possa essere l’unico fondamentale per iscrivere questa pratica cinematografica all’interno di un nuovo presupposto di cinema. E va preso
in considerazione anche un altro fatto emblematico, e cioè che il risultato di Jan Bot sono brevi film dal sapore sperimentale, se non addirittura avanguardistico (con particolare riferimento al Surrealismo e al Dadaismo). Tutto ciò non fa che rafforzare la posizione per cui Jan Bot non si situa al di là del cinema, bensì è pienamente radicato al suo interno, e addirittura si insinua nelle vene della sua storia protendendo le sue spire virtuali negli archivi di un museo del cinema. Il cinema dell’archivio e del database, già preconizzato da Lev Manovich, subisce qui una spinta non indifferente, non essendo più il prodotto dell’attività di un creativo bensì il risultato di una programmazione. È lo sviluppatore a definire gli ambiti di questo «software cinema» del database, mentre i film veri e propri vengono realizzati dal robot. In questo senso Jan Bot ci pone di fronte a parecchie questioni riguardanti la compresenza e la cooperazione che potremmo avere con i robot, nel cinema e non solo. Sì, perché la nuova via della robotica sta intraprendendo direzioni ben delineate e a raccontarcelo
è Roberto Cingolani nel suo L’altra specie, un libro intervista di Caterina Visco in cui il direttore scientifico dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova dispiega davanti a noi gli orizzonti della robotica contemporanea. Quello che più colpisce è come il punto nevralgico non sia più rifare gli uomini, bensì pensare a un’«altra specie», fatta di silicio e con una mente unica in cloud alla quale tutti i robot sono collegati: «Una sorta di repositorio globale dell’intelligenza delle macchine». [1. R. Cingolani, L’altra specie. Otto domande su noi e loro, Il Mulino 2019, p. 38.] Un’intelligenza «connettiva», «a stormo», che ridisegna i confini della nostra collaborazione con le macchine, soprattutto perché lavora su di un vero e proprio modello biologico. È vero che la robotica contemporanea studia ancora le funzioni dell’uomo per applicarle alle macchine, come nel caso della pelle, dei sensori, della vista neuromorfa, ma
se nei primi anni ci siamo concentrati soprattutto sulle humanoid technologies, dal 2010 abbiamo cominciato a lavorare sul trasferimento di soluzioni evoluzionistiche alla tecnologia, un campo di studi che abbiamo chiamato translating evolution into technologies. [2. Ibi, p. 68.]
Esoscheletri, realtà virtuale e nanotecologie costituiscono un campo immenso di sviluppo e impiego di macchine che vanno via via assumendo le stesse funzioni biologiche conquistate con l’evoluzione. E l’orizzonte biologico a cui si guarda è ben più ampio di quello umano. In questo contesto vengono infatti presi in considerazione anche i processi evolutivi di animali e piante, da cui apprendere alcune specifiche qualità da traslare poi nelle macchine. Abbiamo così sviluppato
animaloidi quadrupedi, il centauro, i plantoidi, i robot morbidi che si allungano o si assottigliano per arrivare in luoghi impervi, robot ispirati a insetti ecc… [3. Ibi, p. 36.]
Quest’«altra specie» è fatta di macchine attraverso modelli biologici «diversamente intelligenti», ed è sempre legata al concetto di funzione.
L’intelligenza in cloud e a stormo, tanto temuta dal filosofo tedesco Byung-Chul Han in quanto possibile portatrice di una massificazione degli individui, per molti rappresenta il concretizzarsi di un sistema vitale e complesso di coabitazione tra macchine, uomini, animali e piante. Una sorta di archivio globale virtualmente infinito perché continuamente alimentato, in cui l’intelligenza artificiale può muoversi veloce tra miliardi di dati seguendo indicazioni sempre più complesse. Tra quanti sono di parere opposto a quello di Byung-Chul possiamo annoverare Unanimous AI, la società californiana che ha sviluppato Swarm, una piattaforma di intelligenza artificiale che, proprio a partire dalla logica a stormo degli uccelli amplifica le capacità dei team collegati in rete, consentendo previsioni, decisioni e approfondimenti significativamente più accurati. Swarm consente a qualsiasi gruppo di massimizzare le proprie conoscenze, saggezza e intuizioni combinate, e soprattutto di rendere operativa la connessione. Il principio su cui si basa è quello biologico detto «swarm intelligence», ovvero il processo che consente agli stormi di uccelli, ai branchi di pesci e agli sciami di api di raggiungere decisioni collettive ottimali con notevole efficienza. Un principio che, se applicato alla visione di un pubblico, può decisamente cambiare le carte in tavola: sulla base di data un’intelligenza artificiale programmata e alimentata da più persone connesse (in una sala, per esempio), si può predisporre una «proiezione» visiva e sonora, e magari narrativa, condivisa e partecipata. Un cinema della macchina sembrerebbe lì a venire, un cinema robotico in cui l’uomo c’è, sì, ma dispone il proprio intervento in altro modo: programmando, contribuendo a fornire dati, giocando, intervenendo, condividendo, scivolando di volta in volta dal ruolo di attore a quello di produttore, regista, sceneggiatore e spettatore, senza mai consolidarsi in nessuno di questi, ma attraversandoli e reinterpretandoli in continuazione.

Zone Out. Se il film è realizzato da un’intelligenza artificiale
Per dirla con altre parole la macchina IBM controlla pensiero, sentimento e impressioni sensoriali apparenti – Impresa subliminale.
William S. Burroughs, La morbida macchina
È giunto il momento di incontrare un regista robotico che è stato messo alla prova con film narrativi. Benjamin, una intelligenza artificiale creata da Thomas Middleditch, è infatti regista e sceneggiatrice di ben due film: Sunspring e Zone Out. Un regista algoritmo, un po’ come Jan Bot, che però non vive all’interno di un database, ma viene programmato per la realizzazione di un film specifico. E dopo il debutto con Sunspring è stata la volta di Zone Out, un film «girato» in sole 48 ore. A interessarci in questa sede è innanzi tutto il metodo: il programmatore (ancora una volta, una figura che si sostituisce sempre più al regista e al produttore) ha riunito migliaia di ore di vecchi film alle quali ha aggiunto diversi filmati di attori professionisti ripresi su schermo verde. Si tratta di una sorta di training imposto dal programmatore. Potremmo dire, in qualche modo, che appresta una vera e propria scuola di cinema per un’intelligenza artificiale: fornisce infatti nozioni (data) sulla regia, sulla sceneggiatura e sulla recitazione, e inserisce in memoria anche una sorta di storyboard, non proprio una sceneggiatura disegnata, ma un catalogo di scene e sequenze a cui però aggiunge anche nuove prove di recitazione, quelle degli attori che realizzano una serie di movimenti e forniscono alcune espressioni che vengono accuratamente marcate e consegnate a Benjamin. La logica, ancora una volta, è quella della creazione di un database attraverso una programmazione che avviene tramite un training specifico. A questo punto tutto è pronto e allestito per il primo ciak di Benjamin che ha appena 48 ore per combinare i diversi elementi e per mettere in pratica le nozioni di regia che ha acquisito. Il programmatore non scrive, non produce e non dirige, ma si limita a fornirgli queste indicazioni generiche. Sta poi a Benjamin realizzare il suo film.
Devo però ammettere che quando in precedenza accennavo a un film narrativo, in qualche modo mentivo. Sì, perché se la base da cui Middleditch è partito è quella del film narrativo, e nonostante il materiale preesistente derivasse proprio dal cinema narrativo e le nozioni impartite avessero a che fare con il cinema di finzione, il risultato è assai discutibilmente narrativo. Parliamo infatti di un film con parecchie ellissi, salti e soprattutto con sequenze senza connessioni vere e proprie, e con dialoghi al limite del surreale. Secondo logica, insomma, qualcosa non deve aver funzionato, ma non credo che sia precisamente così. Zone Out, infatti, funziona secondo logiche diverse e secondo regole proprie. Non è paragonabile a nessun film prodotto da un’intelligenza umana, a meno di non volere effettuare una forzatura.
Un po’ come le macchine intelligenti dell’artista Donato Piccolo, dei folli robot tanto complessi quanto illogici. Una volta, in una delle nostre discussioni, a Roma, ha persino ammesso: «Creo intelligenze artificiali ma poi scopro il potere suggestivo delle loro deficienze». Nel suo personalissimo catalogo troviamo tartarughe monitorizzate che passano dati a gambe robotiche; una riproduzione della Gioconda che cammina libera; alcuni oggetti che scorrazzano gestiti da un algoritmo di intelligenza artificiale e teste robotiche che parlano ricostruendo parti di testo in maniera casuale. Donato Piccolo produce algoritmi e robot per scavare nella compenetrazione con la natura, cercando di far emergere quanto di imponderabile e di illogico ci sia intrinsecamente nella macchina. Pur lavorando con informatici e ingegneri non gli interessa sviluppare algoritmi perfetti; al contrario cerca l’imperfezione, e soprattutto ciò che rende ancora rilevante, se non necessario, l’intervento umano. Non stiamo parlando di postumanesimo o di transumanesimo, ma semplicemente di esplorare un ritorno alla natura attraverso strumenti complessi. Produce macchine intelligenti, in qualche modo, ma prive di coscienza. In questo senso la sua pratica artistica è anche una riflessione strategica nel dibattito contemporaneo sull’intelligenza artificiale e i suoi impatti. I robot di Piccolo sono come bambini… una scatola di biscotti, un vaso di fiori, una lampada, ma tutti dotati di gambe robotiche e tutti stimolati in maniera diversa. Si muovono, a volte si scontrano.
La pianta cerca la luce, la lampada il buio, la scatola di biscotti «non lo so nemmeno io», mi confida. Imparano dall’interazione con l’ambiente, tra di loro e con i visitatori. «Raccolgo dati per modificarli. La realtà è uno spunto. Non è surrealismo, il mio, ma la reinvenzione della realtà, una nuova natura.» Un’operazione che ridimensiona certa epica dell’intelligenza artificiale e, allo stesso tempo, rilancia riflessioni interessanti sugli spazi condivisi tra uomini e macchine intelligenti viste come bambini o animali. Nel 2019, a Parigi, Piccolo ha esposto un’opera fatta di due mani robotiche e un fascio di luce che le investe e ne proietta l’ombra sul muro. Come nei giochi dei bambini le mani iniziano a muoversi e realizzano figure di ombra, alcune riconoscibili come il cane o il cuore, altre assolutamente immotivate. Questo è il punto: l’algoritmo si spinge in territori che l’artista non può controllare: «sono deficienze artificiali», dice lui. Eppure la creatività è sempre più chiamata in causa per mettere alla prova proprio l’«intelligenza» di questi esseri artificiali.
Ha fatto scalpore la notizia di un algoritmo che è stato in grado di dipingere un quadro, che tra l’altro è stato battuto a caro prezzo a un’asta di Christie’s. Dopo un intenso corso di storia dell’arte e di tecniche artistiche, l’intelligenza artificiale è riuscita a dipingere un ritratto di signora dal vago stile barocco. Ma possiamo citare anche Pix 18, un robot pittore realizzato alla Columbia University da Hod Lipson che è in grado non solo di dipingere, ma anche di acquisire autonomamente nuove competenze. Insomma: si guarda in giro, prende ispirazione, segue corsi d’arte, si aggiorna… come un qualsiasi artista umano.
Ma ritornando a Zone Out: è evidente che un’intelligenza artificiale non «dirige» un film, ma diviene lo spunto per un ripensamento totale della pratica cinematografica, dal ruolo dell’attore a quello della sceneggiatura, fino alla regia stessa. La macchina apprende secondo «logiche» che stentano a essere «logiche», ma Benjamin è davvero capace di mettere in ridicolo i nessi statistici che così tanto piacciono ai difensori di una intelligenza artificiale «forte», radicando invece proprio nei suoi stessi limiti il suo potenziale creativo. Nel suo essere differente già esprime un cinema del futuro. Così come nella differenza con l’intelligenza umana, l’intelligenza artificiale è in grado di definire se stessa come «altra specie», secondo la definizione di Cingolani.
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