Il sol del cinema a venire di Nanni Moretti
Nella simbologia comunista il “Sol dell’Avvenire” è solitamente rappresentato in forma di sole nascente, ad indicare la rivoluzione già in atto in chi crede negli ideali per la realizzazione del socialismo reale. Eppure, poche altre immagini possono essere confondibili quanto quella di un’alba e quella di un tramonto: Nanni Moretti torna dopo due anni dalla parentesi su soggetto non originale di Tre piani con un titolo carico di aspettative che, forse, avrebbe avuto più senso declinare al passato: “Il Sol dell’Avvenuto” morettiano è un consapevole e tragico sguardo all’indietro verso il proprio cinema e l’intimo rapporto con esso, il quale sembrerebbe giocare, apparentemente, lungo l’ambiguità che le immagini di albe-tramonti sanno offrire in tutta la loro bellezza.
Se Michele-Giovanni-Nanni Moretti viveva all’interno dei suoi film in un apparentemente costante quanto difficile equilibrio psichico, la rappresentazione ultima che tale personaggio-uomo fornisce parrebbe essere quella centrata sull’ormai inevitabile impossibilità di ritrovare questo equilibrio all’interno del cinema che esso stesso si era creato e aveva alimentato in tutte le sue evoluzioni: attestare tutto ciò tramite l’ennesimo film-di-Nanni-Moretti, però, non fa altro che rilanciare questo gioco sul crinale dell’ambiguità di cui sopra, manifestando per immagini l’impossibilità in quanto tale. Rappresentare la vita per non dovervi entrare non funziona più, ma rappresentare questo stesso meccanismo fa collassare il sistema su sé stesso: Nanni Moretti non entra nella vita rappresentandola, e non riuscire più a rappresentarla non gli permette di rientrarvi, sembrerebbe dirci.
In questa crisi deflagra la tragicità de Il Sol dell’Avvenire in tutta la sua coerente bellezza: sarebbe assai arduo quanto inutile provare ad enumerare le innumerevoli autocitazioni dirette e indirette presenti nella pellicola, l’intento ludico (non comico) pur evidente sembra ego-dedicato più che egoriferito, la riproposizione incrociata di trame morettiane e attori-personaggi feticci, dopo una prima parte quasi tributaria, sembra entrare lentamente in un meccanismo filmico post-postmoderno ma non nuovo-realista, in cui lo spettatore, forse, ha più capacità orientativa del regista stesso, tanto della materia che nella materia stessa.
Il circo cinematografico-politico e quindi didascalico ed esistenziale al quale ci ha abituato Nanni Moretti ha preso il sopravvento, si incarna da solo in pellicola ma, prima ancora, nella mente di chi il cinema di Nanni Moretti va ancora a vederlo. In questo senso l’unico disperato gesto possibile per il protagonista, il saluto sorridente con sguardo in camera, più che allo spettatore è forse da intendere rivolto al cinema stesso o, meglio, al cinema-di-Nanni-Moretti in quanto tale.
Se però, come dichiarato anche esplicitamente, l’indipendenza e l’autonomia di questo cinema ha escluso Nanni Moretti dalla vita prima e da esso stesso poi, rimanendo appunto visibile solo in forma di un castello fatto di “se”, l’errore più grave che si possa fare è probabilmente quello di credere che un tale saluto sia nei nostri confronti effettivo: esso, emblema del correlativo sole oggettivo che albeggia e/o tramonta, riguarda a quanto pare l’intimo rapporto del regista col cinema avvenuto ma non, necessariamente, quello di quest’ultimo col Nanni Moretti dell’avvenire.
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