
Decameron, 50 anni dopo – La vita secondo Pasolini
«Io penso che, prima, non si debba mai, in nessun caso, temere la strumentalizzazione da parte del potere e della sua cultura. […] Ma penso anche che, dopo, bisogna saper rendersi conto di quanto si è stati strumentalizzati». Con queste lapidarie parole si apre la celebre Abiura dalla Trilogia della Vita. Pier Paolo Pasolini la scrisse nell’estate del 1975 ma il Corriere della Sera la pubblicherà soltanto il 9 novembre, esattamente una settimana dopo la morte del poeta-regista. Il sistema contro il quale l’autore aveva inteso protestare fraintese i film che compongono la serie, ovvero Il Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972) e Il fiore delle Mille e una notte (1974). La «sincerità» e la «necessità» di tali opere avevano avuto, infatti, giustificazioni ideologiche e storiche. Per Pasolini, alla fine degli anni Sessanta, si era reso indispensabile lottare apertamente. Da una parte per la democratizzazione del diritto di esprimersi nel contesto del nuovo fascismo capitalistico; dall’altra per la liberalizzazione sessuale in una società di stampo regressivo. Decameron Pasolini

In secondo luogo, l’intellettuale aveva registrato l’inizio della crisi antropologica dell’Italia post-sessantottina. Aveva colto nella crescente fortuna della comunicazione televisivo-pubblicitaria un’irrealtà cui solamente «gli “innocenti” corpi con l’arcaica, fosca, vitale violenza dei loro organi sessuali» potevano tenere testa. I suoi tre film erano, perciò, prima di tutto, un inno alla gioia della presentificazione. Molto prima che la materia (e con essa il cinema) si digitalizzasse, Pasolini aveva intuito che la cultura di massa avrebbe astratto le relazioni e disperso le passioni, corrompendo l’anima di quello che fino a quel momento si era ancora potuto chiamare popolo. Non a un caso erano stati giovani e poveri i protagonisti dei suoi esordi da romanziere (Ragazzi di vita, 1955) e cineasta (Accattone, 1960) se proprio quella gioventù perduta ridiventerà centrale nella ricostruzione del medioevo boccaccesco e nordeuropeo, e del Medioriente di Shahrazād. Un’umanità inconsapevole, da amare e guidare verso un futuro radioso. Decameron Pasolini

In particolare, l’avventura del Decameron dimostra una serie di peculiarità. Nato dall’idea un po’ didattica di ridurre la fluviale opera trecentesca per darne – recita l’altrettanto celebre lettera di Pasolini al produttore Franco Rossellini – «un’immagine completa e oggettiva», il progetto è poi cambiato spesso. In primis, il trattamento, suddiviso in tre parti per un totale di quindici racconti, risultò presto eccessivo e schematico. Nel passaggio alla sceneggiatura, infatti, l’autore elimina le novelle d’ambientazione nordica o orientale (scelta che, forse inconsciamente, porterà alle altre due opere) e si abbandona al rischio della frammentarietà. Unico vero filo conduttore rimane il contesto napoletano delle storie. L’ambiente popolare e soprattutto la lingua dialettale assurgono a garanzia di bontà e bellezza. Quasi a fotografare l’ultimo baluardo di un mondo che, seppure in costume, sta scomparendo nel quotidiano dello spettatore. Decameron Pasolini
Napoletanità non così limpida sulla carta come nel film. Questo a riprova che il cinema di Pasolini tendeva a nascere sul set, alimentandosi dell’esistenza che scorre, generandosi (secondo Bertolucci, l’autore friulano inventava il cinema ad ogni inquadratura) e guardando sempre come fosse la prima volta. L’ordine dei racconti è invece frutto di un lavoro che per alcuni commentatori era in balia di un capriccio più o meno momentaneo e per altri dovuto a misteriose elucubrazioni psicologiche. Ma che i raggruppamenti si basino oppure no sul contrappunto tematico e stilistico delle storie, è evidente come la sostanzialità di quanto viene mostrato risieda più nell’insieme che nella singolarità. «Si tratta di un film corale – spiegherà il regista – che si è rifiutato decisamente di essere un film a “episodi”». Mentre episodiche e assai meno sentite sono le imitazioni che escono successivamente e che al Decameron si ispirano solo per cavalcarne l’inaspettato successo. Si tratta del filone noto come “decamerotico”, che conta circa trenta pellicole.

Dal capostipite Quel gran pezzo della Ubalda tutta nuda e tutta calda (1972) alle inevitabili parodie, passando per le commediole con protagonista Don Backy: un universo produttivo fuori controllo, animato esclusivamente dalla corsa al guadagno rapido col minor sforzo possibile. Così, in pochissimo tempo, la sacralità del film storico o letterario viene messa in discussione e l’ambizione satirica di Pasolini ridicolizzata. Ma di questo effetto collaterale, di questa reazione istantanea del sistema, l’Abiura è ben consapevole quando denuncia come «ciò che nelle fantasie sessuali era dolore e gioia, è divenuto suicida delusione, informe accidia». Nell’approccio voyeuristico degli epigoni va perduto ogni sogno di rivoluzione, mentre la purezza scompare nello sfruttamento commerciale di un’idea che (come ogni cosa veramente artistica e utile) sarebbe dovuta rimanere un unicum nella storia. «Il crollo del presente implica anche il crollo del passato», concludeva Pasolini. Infondo, negli slanci mortuari, nell’apertura omicida e nella malinconica battuta finale che lui stesso recita, qui profeticamente c’era già tutto. Dunque la censura sequestrò il film e portò gli autori a processo, che terminò con l’assoluzione di tutti. E Il Decameron vinse l’Orso d’argento al Festival di Berlino. Decameron Pasolini
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