
Comizi d’Amore: l’immortale parabola di Pasolini
«Una persona che si scandalizza vede qualcosa di diverso da se stesso, è psicologicamente incerto, sarebbe a dire che è un conformista»
Comizi d’amore è il film documentario di Pier Paolo Pasolini che dà avvio e forma al genere del film d’inchiesta, ad oggi tradotto in forme disparate, da Tutti gli uomini del presidente diretto da Alan J. Pakula (1976), a Zodiac, (2007) di David Fincher. Tale genere cinematografico, per sua natura, si premura di raccontare eventi realmente accaduti di cui il regista è testimone diretto o indiretto, denunciandone criticità e problematiche disparate, siano esse economiche, sociali o di qualsivoglia altro genere.
Ciò che sorprende del linguaggio pasoliniano è la sua purezza e semplicità (riscontrabile nell’opera intera), capace di mantenere una forma attuale tutt’oggi: l’indagine su cui desidera far luce è il concetto di sessualità e la sua percezione sul popolo italiano. Questo è il motivo per cui egli scandaglia ogni frammento della società italiana degli anni sessanta, mettendo in mostra la spontaneità dei soggetti intervistati, veri protagonisti della pellicola.
Pasolini approfitta di un momento di ricognizione per iniziare la sua indagine: nel 1963, infatti, vaga per lo stivale in cerca dei luoghi adatti dove girare il suo film Il vangelo secondo Matteo (diretto nel 1964), insieme al produttore Alfredo Bini. In questo iter, tra luoghi disparati, culla di personalità diametralmente diverse tra loro, il regista trova terreno fertile per la sua inchiesta: vuole conoscere l’opinione degli italiani sulla sessualità, il buon costume, i concetti di “invertito” e di “divorzio”.
Da marzo a settembre di quello stesso anno, Pasolini raccoglie tutto il materiale che gli necessita per poter fornire all’Italia intera uno spaccato della propria consapevolezza in materia sessuale che, come vederemo, deluderà intensamente le sue aspettative. In questo panorama non solo si inseriscono contadini del mezzogiorno e la buona borghesia sul lungomare di Viareggio, ma il tutto viene inframezzato da alcuni tra i volti degli intellettuali più attenti e vicini a Pasolini: Oriana Fallaci, Alberto Moravia, Cesare Musatti, Giuseppe Ungaretti tra i primi. Questi si pongono quasi come chiavi di volta tra un sintagma e l’altro del film, sottolineandone alcuni momenti più salienti.
P: «Senti tu, mi sai dire come nascono i bambini?»;
Bambino: «Dalla pancia! I bambini nascono dalla pancia!».
Il dialogo sopra riportato è una delle prime battute che emergono all’inizio della pellicola: siamo a Palermo, in una piazza dove i più piccoli prendono parola incuriositi dalle domande del poeta bolognese. Il primo frammento che ci viene mostrato è quello dell’infanzia dunque, della purezza di un’età in cui la sessualità non è tanto tabù quanto inconsapevolezza; il bambino è un luogo di soglia tra chi l’ha generato e l’adolescenza, crea un ponte tra due momenti diversi della vita di un uomo. Così, con l’inconsapevolezza dell’infanzia, i bambini rispondono alle domande di Pasolini con convinta fede nella cicogna e nei racconti popolari che hanno sedato la loro sete negli anni. Non sorprende che sia proprio qui che appaiono, dopo qualche minuto, i volti di Moravia e Musatti, consapevoli del loro linguaggio e della loro maturità intellettuale, intenti a riflettere circa la correlazione tra ignoranza e paura, concetti che, a loro volta, danno vita al non detto, quindi al tabù. Nel loro intervento emerge il tema della dissacrazione, strumento per la lotta a quell’ignoranza e quella paura. Una lotta che pare tradursi proprio nel tentativo pasoliniano di informare e chiarire con totale e crudele verità (quasi come direbbe Artaud del suo teatro) materie che stanno alla base dell’agire umano e che accomunano, checché se ne possa dire, ogni individuo sia esso «il piccolo proletariato o l’ipocrita borghesia». Adattandosi perfettamente a questa affermazione, Pasolini continua il suo viaggio mettendo in luce le differenze tra Nord e Sud e, paradossalmente, l’emancipazione (almeno parziale) presente nel pensiero di molti tra i proletari seppur, ovviamente, non contadini.
Divide la sua ispezione in quattro ricerche ben precise, dando loro un titolo e un interrogativo ben delineati. Nessuna delle domande è lasciata al caso e il suo inserimento in determinate fasce della società è ben studiato, accorto e attento a mettere in risalto non solo il desiderio di non scostarsi da uno stato d’ignoranza in cui il popolo è immerso, bensì il paradosso che lo anima. Tali ricerche le elencheremo nel seguente modo:
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Ricerca I : Grande fritto misto all’italiana: si vede una specie di commesso viaggiatore che gira per l’Italia a sondare gli italiani sui loro gusti sessuali; ciò non per lanciare un prodotto, ma nel più sincero proposito di capire e di riferire fedelmente.
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Come gli italiani accolgono un film del genere?
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Come si comportano di fronte all’idea di importanza del sesso nella vita?
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Ricerca II : Schifo o pietà? Appurato che gli italiani, di fronte a delle domande generali oppongono una serie di innocenti e un po’ balordi no comment, vediamo un po’ cosa succede di fronte a una domanda precisa, brutale, bruciante sull’omosessualità.
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Ricerca III : La vera Italia? Ci si chiede se davvero all’uomo interessi qualcos’altro che vivere.
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Comizi nelle spiagge romane: il sesso come il sesso
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Comizi nelle spiagge milanesi: il sesso come hobby
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Comizi nelle spiagge meridionali: il sesso come onore
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Comizi al lido: il sesso come successo
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Comizi nelle spiagge popolari toscane: il sesso come piacere
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Comizi nelle spiagge borghesi toscane: il sesso come dovere
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Ricerca IV: Dal basso e dal profondo. Sprint finale: l’autore, deposta ogni idealistica ambizione, va raccogliendo materiale per un grande monumento, alla vecchissima, innocentissima, caldissima Italia degli anni sessanta.
Risulta subito evidente quanto provocatorie siano le questioni portate alla luce: il popolo italiano è pungolato e provocato nel profondo e gli elementi che emergono da questa indagine, siano essi repressione, economia, diritto, forniscono spunti estremamente interessanti e perfettamente inseriti nel panorama odierno. Si conferma la capacità di Pasolini di essere un visionario, un outsider che non solo era capace di leggere il presente bensì di delineare una parabola esatta del futuro storico, sociale e umano di un’intera nazione.
Il grande paradosso di questa inchiesta è sicuramente rappresentato dal modo di considerare la sessualità, e con essa la figura femminile estremamente legata al binomio donna e madre di famiglia, di alcune realtà arretrate e povere. Nel nord i contadini e le donne lavoratrici dei campi, sono pressoché tutti concordi nell’affermare che la libertà delle donne debba essere un poco più emancipata e che l’unione coniugale non sia capace di liberare l’individuo dal problema della sessualità. Ragionamenti visionari questi, se confrontati a quelli della borghesia di Viareggio, che, al contrario, si pone nei confronti di Pasolini con una certa tracotanza e riluttanza: alle sue domande sulla prostituzione, giovani donne e uomini sogghignano, ritenendola un bene cui l’uomo medio necessita di usufruire. La donna svilisce se stessa e non sa orientarsi entro quelli che dovrebbero essere i suoi diritti, tristemente castrata dai doveri che socialmente le sono imposti.
Il docu-film pasoliniano nei primi dieci minuti ha già chiarito un concetto fondamentale: laddove dovrebbe esserci una predisposizione facilitata all’apertura mentale, vi è una totale incapacità di comunicare; al contrario, ciò che risulterebbe retrocesso è caratterizzato invece da una spinta d’avanzamento: la campagna rurale risulta essere più intimamente vera, in perfetto stile neorealista di qualche decennio precedente.
Tale distinzione viene però ulteriormente sdoppiata nella ricerca pasoliniana, in particolar modo per quanto concerne le differenze tra Nord e Sud Italia: la stessa Oriana Fallaci applica una cesura netta tra la condizione delle donne operaie in una città come Milano ed il sottoproletariato calabrese, definendo quest’ultimo “un altro pianeta”. Le differenze si riscontrano soprattutto in termini di integrità morale, quando Pasolini porta alla luce il valore della purezza della carne. A Reggio Calabria la situazione è chiara: una donna che non arrivi vergine al matrimonio non si può sposare, al contrario dell’uomo che agisce secondo i suoi bisogni e impulsi naturali. Siamo d’innanzi ad una società divisa in molteplici opposti: Nord e Sud, ricchi e poveri, donne e uomini, eruditi e ignoranti. In questa visione, il Nord è oggettivamente moderno, ma in possesso di idee estremamente confuse sul sesso; all’opposto, il Sud è sì antiquato, ma con idee ben precise di come funziona la materia sessuale, idee chiare ma sempre estremamente svilenti.
Pasolini si spinge ancora di più nel profondo mezzogiorno, giungendo sino nella Sicilia mafiosa, dove gli è difficile riuscire a comunicare con il sesso femminile, seguito da uno stuolo di uomini, parenti, persone di cornice che rappresentano la coda con la quale ogni donna è costretta a convivere nell’impossibilità di fare un qualsiasi gesto quotidiano in solitaria, come il semplice uscire di casa. L’importanza di ciò che per l’epoca era l’integrità morale, caricata di valori come la verginità o la capacità di stare nel proprio posto è frutto di un’analisi attenta da parte di Pasolini che qui ne individua un nodo cruciale: la mancanza di soldi viene barattata con l’incorruttibilità della donna, il cui corpo diviene esso stesso una ricchezza materiale. Come una proporzione chiara:
povertà: donna = moralità: ricchezza
Tutto ciò che è contro la norma, anti-norma, viene perciò esiliato, allontanato. È così per le prostitute, ai margini della società proprio come in Mamma Roma (1962), per ciò che viola un poco il consueto degli anni sessanta e per quelli che, ai tempi, si solevano chiamare gli invertiti. Un termine decisamente evocativo di un’idea di anti-natura, un’alfa privativa di fronte alla buona norma sociale obbligata di quegli anni. In questa riflessione il regista invoca la voce di Giuseppe Ungaretti, il quale già di natura si considera invertito, ponendo l’accento sulla sua attività di poeta che da sola era capace di trasgredire le leggi naturali: proprio per questo, appaiono con forza, qualche minuto a seguire, le testimonianze della gente comune, che solo udendo i termini sopra citati inorridisce. Quello che segue è un elenco accumulativo di parole che non lasciano molto spazio né al dialogo, né tanto meno alla riflessione cosciente: indifferenza, schifo, ribrezzo, pena, pietà, compatimento.
Il gusto sessuale diventa un capo d’accusa, ben lontano dalla definizione di orientamento che ad oggi le attribuiamo con coscienza di causa: è una colpa, una perversione che per i più è scelta volontaria di promiscuità, una moda che allontana i giovani da ciò che è giusto e ciò che non lo è. Più si entra nel vivo della questione e più è comprensibile allo spettatore quanto e perché Comizi d’Amore sia un documentario di un’attualità disarmante.
Nessun tema affrontato si sottrae alla critica del nostro secolo. Tutt’altro, pare quasi che determinati punti siano fermi proprio a quegli anni ’60 in cui il giovane bolognese ci ha mostrato uno spaccato sociale particolarmente incapace e facile da scandalizzare. Dall’aridità che Pasolini ha riscontrato per tutta la prima parte della sua indagine, approda a un punto in cui decide di cambiare completamente il modo in cui porre le domande: decide di affrontare le problematiche tra sessualità e matrimonio e, per ultima istanza, dà voce al popolo principalmente su ciò che la legge Merlin ha comportato sul suolo italico.
Ci troviamo d’innanzi, nuovamente, a due strade parallele: una parte del sistema italiano ragiona in maniera radicata e morbosamente attaccata all’accezione di famiglia, ritenendola l’unica forza propulsiva su cui si fonda uno stato e unico scrigno di valori di una società intera. D’altro canto, invece, c’è chi inizia a pensare a tale ideale come superato e, anzi, parla in termini di divorzio come di diritto, invocando una legge che possa garantirlo alla popolazione intera. Un piccolo moto, questo, che è sintomo di un qualche tipo di rivoluzione e che non solo esplica la volontà di trovare risposta a un bisogno personale, ma anche il riconoscimento della stessa necessità dell’altro. In maniera molto simile si colloca l’ultimo argomento tirato in causa da Pier Paolo Pasolini, riguardante la chiusura delle case d’accoglienza della prostituzione (legge Merlin, per l’appunto, 1958), aspramente criticata per ragioni di ordine igienico ed economico non solo da chi usufruiva dello sfruttamento sessuale delle donne, ma da quest’ultime in prima istanza. Pasolini le interroga, ferma i loro volti davanti alla camera esattamente come quelli dei borghesi all’inizio dell’indagine: mette tutti gli individui sullo stesso piano, una livella capace di annientare le differenze e di esaltare la faccia d’ombra della realtà.
Il popolo italiano esce da quest’analisi pasoliniana più frammentato e testardo che mai: differenze quasi impercettibili rispetto al nostro presente più attuale, che si carica sia di coraggio e possibilità da un lato, ma anche da un forte conformismo borghese dall’altro. La parabola di Pier Paolo Pasolini si conclude con la scena di un matrimonio, lasciando ai suoi spettatori mille domande e la consapevolezza di essere venuti meno ad un’esigenza nazionale: un’incapacità di voler ascoltare e, per conseguenza diretta, una forte problematicità nel comunicare il comune sentire. Mentre la sposa e lo sposo si congiungono, la voce bolognese del regista ci guida verso un ultimo, irrisolto e significativo interrogativo:
«Al vostro amore si aggiunga la coscienza dell’amore»
Non a caso, ciò che Oriana Fallaci nel 1975 scrisse in onore della morte del grande intellettuale rimane vero come la sua opera stessa:
«Mi odierai ora se ti dico che eri una luce e ora una luce si è spenta?»
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