
L’immagine vischiosa dell’eros – Pasolini, il Portico della Morte e Freud
Pasolini è stato un “empirista eretico” anche nelle sue abitudini di lettore: in un periodo in cui la cultura di sinistra, simbolicamente rappresentata e certificata dalla casa editrice Einaudi, si arrovellava soprattutto su economia, sociologia e filosofia politica, Pasolini fu in Italia uno dei primi tra gli intellettuali a rivendicare l’importanza anche di altri campi del sapere, psicoanalisi e antropologia in primis.
Se rispetto all’antropologia è emblematica la sua recensione a Mito e realtà di Mircea Eliade poi raccolta in Descrizioni di descrizioni, rispetto alla psicoanalisi Pasolini mantenne sempre un atteggiamento piacevolmente eterodosso. Già da decenni si era consumata la scissione tra Freud e Jung: ma in un momento in cui altri registi suoi coetanei o si erano aggrappati alle indagini archetipiche di Jung, come Fellini, o invece testimoniavano ancora una certa ortodossia freudiana, come i fratelli Nelo e Dino Risi, Pasolini ibridò le due principali scuole di pensiero psicoanalitico, dandone una particolare rilettura nel corso dei suoi film. E nella lista dei libri presenti nella biblioteca di Pasolini al momento della sua morte, curata dalla cugina Gabriella Chiarcossi, figurano diversi testi tanto di Freud quanto di Jung, in una collezione che complessivamente brilla per eterogeneità e ricchezza di vedute.

Forse, fosse stato costretto a scegliere per forza uno dei due, Pasolini avrebbe optato in ultima analisi per Sigmund Freud. In un articolo pubblicato su Il Giorno nel novembre 1963, Pasolini ricordava che, mentre si trovava a Bologna per girare alcune interviste di Comizi d’amore, era passato di nuovo tra le bancarelle del Portico della Morte, uno dei luoghi-simbolo della formazione intellettuale di Pasolini, che aveva passato infanzia, adolescenza e giovinezza alternandosi tra Bologna, il Friuli Venezia Giulia e Cremona.
In particolare, ricordava Pasolini in quell’articolo, «tutto Freud l’avevo letto a Bologna, e acquistato in parte proprio al Portico della Morte, venti anni fa, e più, atto fondamentale della mia cultura e della mia vita». Come ha rimarcato anche lo studioso Massimo Fusillo (qui la nostra intervista), questa di Pasolini è una delle sue molte iperboli: negli anni quaranta a cui Pasolini fa riferimento, la traduzione dell’opera di Freud in Italia era ben lontana dall’essere completa. Nondimeno, è fuori dubbio che Pasolini, già ventenne, avesse una buona conoscenza delle teorie freudiane, a cui avrebbe continuato a fare riferimento nei suoi film anche in chiave autobiografica; e nel pezzo su Il Giorno, P.P.P. si lamentava proprio della «mancata conoscenza e coscienza pubblica di Freud», che aveva comportato una «mancata accettazione e circolazione tra gli strati più alti della società italiana», per poi soffermarsi sulle «qualità di romanziere, di sapiente narratore» del fondatore della psicoanalisi.

Freud – a cui Pasolini in un altro articolo aveva attribuito la paternità di un’«immagine vischiosa dell’eros» a lui molto vicina in fatto di sensibilità – è indubbiamente uno dei fantasmi teorici alla base del cinema pasoliniano. Due film in particolare, usciti peraltro in stretta successione l’uno dopo l’altro, sembrano risentire di un forte influsso freudiano: l’Edipo re e Teorema, sulla cui storia P.P.P. trasse anche un libro. A questi si potrebbe aggiungere anche Salò o le Centoventi giornate di Sodoma, il film uscito postumo nell’autunno del 1975 poche settimane dell’assassinio di Pasolini a Ostia: ma, benché le tematiche trattate nel film da P.P.P. dimostrino notevoli corrispondenze con il Freud dei Tre saggi sulla sessualità, Salò era pur sempre tratto da un romanzo sadiano di fine Settecento, reambientato da Pasolini al termine dell’era fascista e riletto dal regista-intellettuale soprattutto attraverso Bataille e Klossowski; Freud era, per così dire, sullo sfondo. Del tutto immune da ogni concettualizzazione era invece la precedente Trilogia della vita, composta dal Decameron, dai Racconti di Canterbury e dal Fiore delle Mille e una notte: tre film di una spensieratezza erotica che Pasolini non avrebbe più ritrovato.

«La nostra esistenza/Non è che un folle identificarsi con quella dei viventi/Che qualcosa di immensamente nostro ci mette vicino», i famigliari vale a dire. Così si leggeva in uno degli intermezzi teorici che accompagnano il romanzo di Teorema scritto da Pasolini in parallelo al film, la cui prosa è ricca di suggestioni che ci lasciano scorgere il retroterra teorico implicito anche nella pellicola. Sempre nel libro di Teorema un capitolo si intitola Identificazione dell’incesto con la realtà, ed esprimeva, a versi, lo sconcerto di una ragazza adolescente che, entrata in contatto con una sessualità primigenia e irresistibile, avvertiva «i penosi sintomi della mia malattia di classe». La trama del film sembra quasi un’allegoria biblica, con un dio erotico, a metà strada tra Dioniso e JHWH, che viene a sconvolgere l’ordine e la tranquillità di una famiglia dell’alta borghesia milanese.
Se al figlio maggiore di questa Famiglia l’ospite fa scoprire una sua omosessualità latente – anche questo un concetto freudiano, che però Pasolini declina un po’ diversamente – alla Figlia il dio interpretato da Terence Stamp permette di superare il legame unilaterale col Padre, aprendosi a un maschile esterno alla famiglia. Si tratta di un ribaltamento al femminile di un freudiano complesso di Edipo in piena regola, ciò che studiosi successivi a cominciare da Jung hanno ribattezzato complesso di Elettra: «mi hai fatto trovare la soluzione giusta/(e benedetta) alla mia anima e al mio sesso», si leggeva nell’intermezzo lirico a lei dedicato. «La presenza miracolosa del tuo corpo/di giovane maschio e padre/ha sciolto la mia selvaggia e pericolosa/paura di bambina», ma, adesso che l’Ospite sta per allontanarsi da quella casa, «il dolore è causa di una ricaduta/molto più grave del male/che ha preceduto la breve guarigione». Passando, per così dire, dalla psicoanalisi alla psichiatria, dopo la partenza dell’Ospite la Figlia sprofonda in uno stato catatonico e, dopo inutili tentativi di cura a casa, dei paramedici vengono a portarla in barella per portarla in una clinica psichiatrica.

In una vecchia intervista ad opera di Doriano Fasoli, lo scrittore ed editore Roberto Calasso aveva affermato che, se «la visione scientifica della psicoanalisi» è stata «una grande illusione in cui in un certo senso Freud stesso ha pescato energie», «il fondo della sua opera è diverso… più mitopoietico che altro». L’utilizzo che Pasolini ha fatto, soprattutto nel caso di Teorema, delle teorie originarie della psicoanalisi lascia scorgere nitidamente il retroterra mitico implicito nei fondamenti del pensiero di Freud – prima che nuovi studiosi arrivassero a “lacanizzare” l’immaginario pasoliniano, secondo un’ottica certo sopra-interpretativa ma anch’essa ricca di fascino.

L’impronta di Freud non si limita alla caratterizzazione dei due personaggi filiali, fra Teorema libro e film: se non la Madre di Silvana Mangano, quantomeno il Padre di Massimo Girotti può essere a sua volta letto in chiave psicoanalitica. Nella sequenza, comune a film e libro, in cui il padre, a sua volta sedotto dall’Ospite, passa “da possessore a posseduto”, Pasolini annota una riflessione di vivo sapore freudiano, giudaico e ribelle a un tempo: «Ma, a questo punto, pensiamo che sia giusto finire di chiamare il padre semplicemente ‘padre’, e chiamarlo con il suo nome, che è Paolo. Anche se un nome di battesimo, un qualsiasi nome, può parere assurdo se attribuito a un padre: esso, infatti, in qualche modo, lo priva della sua autorità, lo sconsacra, lo respinge alla sua vecchia qualità di figlio: esponendolo appunto a tutte le disgraziate, oscure e anonime vicissitudini dei figli».
È proprio a questo punto della storia che il Padre deve assumere un nome, deve farsi uomo e carne tremula e corpo passivo, desiderante suo malgrado. Ed è in questa sessualizzazione generale dell’esistente che si può cogliere un’altra, cruciale corrispondenza tra le teoria freudiana e l’immaginario pasoliniano. Freud era stato tacciato di “pansessualismo” per aver indicato nel cosiddetto principio di piacere la radice di ogni comportamento umano – salvo poi correggersi e aggiungere anche la «pulsione di morte». Ma anche per Pasolini «la storia, la politica, la varia vita dei sentimenti, tutto si riduce a furore sessuale. E il sesso si santifica in quanto induce la misera prole dell’uomo ad abbandonarsi, a rifugiarsi nell’autorità somma di Dio, padre incestuosamente amoroso di tutti i suoi figli», scriveva Vittorio Spinazzola nella sua recensione al romanzo Teorema.

La stessa pulsione “freudiano-pasoliniana” a leggere tutto alla luce della sessualità, anzi tutto alla luce dell’incesto, la si ritrovava, in nuce, anche nell’Edipo re, il film che Pasolini aveva tratto dalla più importante della tragedia di Sofocle. In un’intervista per i Cahiers du Cinéma rilasciata nell’autunno del 1967, Pasolini stesso riconosceva la contiguità tematica e la simultaneità cronologica di ispirazione tra l’Edipo re e Teorema: «a Cannes ho scritto il soggetto di Teorema, che devo girare adesso, e mentre scrivevo Teorema il trattamento di Edipo ha preso forma. Teorema è un film dove l’incesto è moltiplicato almeno per cinque, e si trova mescolato all’idea di Dio, perché la persona con la quale i cinque membri della famiglia commettono incesto è proprio Dio: questi temi del divino e dell’incesto, che si trovano nel cuore di Teorema, hanno ridato vita a Edipo, che si è imposto alla mia ‘fantasia’ e al quale ho dato la priorità».
Nell’Edipo re, emerge anche più chiaramente di Teorema il debito che Pasolini ha con Freud: debito che non riguarda solo l’aspetto creativo e filmico della sua opera, ma che ha investito biograficamente e retrospettivemente la sua stessa vita. Nei primi minuti del film del 1967, Pasolini gioca con lo spettatore e sé stesso a mettere in scena la sua stessa infanzia, nella Bologna dei primi anni dell’era fascista. Con un magnifico découpage – prima o poi qualcuno dovrebbe tracciare un’antologia del montaggio pasoliniano – Pasolini ci trasporta poi nelle campagne mitiche della Grecia, tra Tebe e Corinto, dove si consuma la tragedia di Edipo – ma l’incipit dell’opera traspone l’abbandono di Edipo neonato da parte dei genitori Giocasta e Laio, innestandolo sull’infanzia bolognese di Pasolini stesso.

Nei primi minuti dell’Edipo re il regista arriva a riprendere, con una particolare scelta di distacco di campo, anche il momento fatidico della sua nascita. Di più: nell’incipit dell’Edipo re il padre è un ufficiale dell’esercito che, vedendo per la prima volta il bambino, pensa – come esplicitato da una didascalia – «tu sei venuto qui per togliermi il mio posto nel mondo, ricacciarmi nel nulla e rubarmi tutto quello che ho»; anche il vero padre di Pasolini, Carlo Alberto, era stato un militare di carriera, peraltro colluso con il fascismo.
La parte proemiale dell’Edipo re rappresenta la più callida trasposizione cinematografica del complesso di Edipo secondo Freud, che qui viene riportato all’originario mito che ne ha fornito il nome e modello. Nondimeno, Pasolini ha voluto “mettere le mani avanti ed evitare” che i critici leggessero la sua resa cinematografica della tragedia in un’ottica fin troppo psicoanalitica. In Pasolini su Pasolini, il libro-intervista che gli dedicò lo studioso inglese Jon Halliday, l’intellettuale e cineasta affermò infatti: «volevo fare il film liberamente. Primo, volevo presentare una sorta di autobiografia, completamente metaforica e quindi mitizzata; secondo, affrontare sia il problema della psicoanalisi sia quello del mito. Ma anziché proiettare il mito sulla psicoanalisi, riproiettai la psicoanalisi sul mito: fu questa l’operazione fondamentale in Edipo». Come a voler ribadire l’autonomia e la preminenza del cinema, e prima ancora del mito, rispetto ad ogni altra considerazione di stampo ideologico o intellettuale.

La conoscenza e il legame intellettuale che Pasolini ha sempre dimostrato nei confronti di Freud aggiungono nuovo spessore anche al rapporto costantemente travagliato che Pasolini ebbe con la sua dichiarata omosessualità. Benché non manchino passaggi – in testi anche di natura politica, come le Lettere luterane – in cui Pasolini sembra operare una eziologia freudiana del suo orientamento sessuale, la questione è un po’ troppo legata alla sfera privata e chiacchierata dell’uomo perché sia prudente indugiare su questo tasto. Più in generale, quanto Pasolini scrisse su Freud nei primi anni Sessanta ci fa accorgere che tuttora sussiste una «mancata conoscenza e coscienza pubblica di Freud», che pure rappresenta un limite, e per certi versi un pregiudizio, della tradizione culturale italiana.
Al di là di ogni riflessione circa l’efficacia della terapia e singoli punti dell’architettura di pensiero freudiana giudicati “superati” o inattuali da esperti e commentatori di vario tipo, film di Pasolini come l’Edipo, Teorema, Porcile e lo stesso Salò testimoniano anche della profonda potenzialità creative insite nell’opera di Freud, capace di andare ben al di là del sogno. Se fu lo stesso Pasolini ad attestare come fosse possibile «essere con te e contro di te» rispetto a un maître à penser – Gramsci, nel suo caso – il cinema pasoliniano può diventare un viatico privilegiato per riscoprire la ricchezza della prospettiva di Freud, al netto delle volgarizzazioni e delle banalizzazioni di cui è stata oggetto sin quasi dal suo sorgere.
Bibliografia
Gabriella Chiarcossi, Franco Zabagli (a cura di), La biblioteca di Pier Paolo Pasolini, Gabinetto Scientifico Letterario G.P. Vieusseux – Casa Editrice L.S. Olschki, Firenze 2017
Gabriele Fadini, Pasolini con Lacan. Per una politica tra mutazione antropologica e discorso del capitalista, Mimesis, Milano-Udine 2015
Italo Moscati, Pasolini e il Teorema del sesso. 1968: dalla Mostra del cinema al sequestro. Un anno vissuto nello scandalo, il Saggiatore, Milano 1995
Pier Paolo Pasolini, Teorema, Garzanti, Milano 2015, con una prefazione di Attilio Bertolucci
Pier Paolo Pasolini, Descrizioni di descrizioni, Einaudi, Torino 1979, a cura di Graziella Chiarcossi
Pier Paolo Pasolini, Per il cinema, Mondadori – Meridiani, Mondadori, Milano 2001, a cura di Walter Siti e Franco Zabagli
Pier Paolo Pasolini, Il Portico della Morte, Garzanti, Milano 1988
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