
Pasolini e Teti – Fuga di archetipi
Erotismo Eversione Merce. Su questi tre, laici Assoluti, doveva ruotare un convegno tenutosi a Bologna nel 1973 in cui Pasolini tenne un intervento poco noto, ma cruciale per capire come stava mutando il suo pensiero al di là del Sessantotto. Il discorso serviva a Pasolini tanto per ribadire i punti della sua critica ai sessantottini, già esplosa cinque anni prima con la controversa poesia Il PCI ai Giovani!, quanto, e forse per la prima volta, per iniziare a problematizzare la rappresentazione filmica della sessualità che lui stesso aveva contribuito a liberalizzare: un erotismo su celluloide da cui adesso P.P.P. prendeva le distanze non per ragioni morali o psicologiche, ma per la considerazione politica che l’Eros si era tramutato in merce. A scombinare ulteriormente le carte c’era il titolo di questo intervento: Teti, come la dea greca delle acque marine, la ninfa madre di Achille. Ma andiamo con ordine.
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«Una scelta estetica è sempre una scelta sociale. Essa è determinata dalla persona a cui si rivolge la rappresentazione e dal contesto in cui la rappresentazione si svolge». Questa era la premessa, tautologicamente condivisibile, del discorso che Pasolini iniziava a rivolgere agli auditori del convegno – per poi entrare nel vivo con un esempio attento direttamente dalla sua prassi di regista. «Prendiamo una scena erotica da laboratorio. Una camera, un uomo, una donna. Il regista è di fronte alla solita scelta: che cosa includere e che cosa escludere?». Pasolini non finge imparzialità: dichiara chiaro e tondo che, da “empirista eretico”, il suo discorso si riferisce innanzitutto alle esperienze che ha avuto allorché film come Teorema o i tre capitoli della Trilogia della vita hanno incontrato il pubblico, i censori e sinanche la magistratura – contribuendo però, dopo un primo momento di opposizione netta, a far allentare i confini e le censure che, in Italia, la rappresentazione grafica della sessualità subiva, sul grande schermo e nella percezione collettiva.

«Ora, pare che a questo punto, io sia chiamato in causa direttamente, e che debba testimoniare, oppure illustrare o giustificare, un’esperienza personale e pubblica nel tempo stesso. Infatti come autore di film, in questi ultimi anni, ho indubbiamente compiuto uno di quegli sforzi individuali di cui dicevo, per allargare lo spazio espressivo che la società mi concedeva a rappresentare il rapporto erotico. Sono giunto, per esempio – cosa mai accaduta fino a quel momento – a rappresentare il sesso addirittura in dettaglio». È storicamente attestato che Pasolini in Italia fu tra i primissimi registi, per non dire il primo, a mostrare nei suoi film nudi integrali femminili e, cosa ancora più sconcertante per la morale del tempo, anche maschili – arrivando anche a sbeffeggiare quei critici che provavano a ignorare la componente sessuale insita nelle sue opere, laddove il messaggio politico «c’era, eccome, ed era proprio lì, nel cazzo enorme sullo schermo, sopra le loro teste che non volevano capire».
È storicamente attestato anche il fatto che Pasolini, proprio per la rappresentazione della sessualità nelle sue opere, dai “marchettari” del romanzo d’esordio Ragazzi di vita in poi, dovette subire un numero impressionante di processi per oltraggi al pudore, come ricostruito anche da Wu Ming 1 in un longform per Internazionale di qualche anno fa. Ma, al di là di questi dati appunto storici, Pasolini ha sempre rivendicato per sé anche l’esplorazione dello sfondo mitico, archetipico, poetico che sta dietro a ogni nostro atto, pubblico o privato che sia. E per comprendere al meglio la portata tout court antropologica della visione politica pasoliniana, e, in questo caso specifico, dell’intervento di P.P.P. al convegno Erotismo. Eversione. Merce, faremo bene a rivolgerci al titolo di quel discorso pubblico – né più né meno che Teti.
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«Tetis era, per il regista, il sesso nell’unità di maschile e femminile. Era fallo e vagina, una cosa sola. Era il sesso che mutava forma e che possedeva la potenza unica del divino»: così spiegava Italo Moscati nel suo Pasolini e il Teorema del sesso, a metà strada tra memoir ed excursus critico. «La platea di Bologna, anche quella parte che non capì subito, seppe che per Pier Paolo Pasolini esisteva un dio e questo dio era il sesso, o meglio il suo inafferrabile segreto». Questo è oltremodo interessante, ma non ci basta: scegliendo di intitolare il suo intervento nel nome di una dea che poi, nel discorso, invoca in un unico passaggio, Pasolini testimonia, una volta ancora, di avere quella consapevolezza tragica di cui trasudano i suoi film. Vediamo come.

Il sesso e il sacro. Binomio altrettanto indissolubile e altrettanto censurato di quello che, identificato da René Girard, legava e lega La violenza e il sacro. Eppure non se ne scampa. Anche in una religione che a parole nega la carne, come il cristianesimo – anche nel cristianesimo le estasi non solo scultoree delle Sante Teresa di turno sono lascive, e Dio si manifesta anche come irruzione, irruzione generante, in scene come quella dell’Annunciazione a Maria, messa in scena, peraltro, dallo stesso Pasolini nel suo Vangelo. Del resto, Pasolini è stato tra i pochissimi registi italiani a presentare al pubblico una sua personalissima ontologia. Solo Antonioni e Marco Ferreri lo accompagnano, per capacità di costruire un nuovo mondo, con tutte le sue regole destinali ed esistenziali, ad ogni film. Fellini già era su altri cosmi, verso altri spazi – ontologici no, metafisici sì. Ed è per questo che, quando dice «alla fine degli anni Sessanta l’Italia è passata all’epoca del Consumismo e della Sottocultura», utilizzando queste maiuscole Pasolini rivendica l’utilizzo di una visione generalista e tragica dell’evoluzione della società italiana in termini di “corsi e ricorsi storici” degni di Giambattista Vico – e mai di Hegel, per inciso.

Lo sguardo tragico e generalizzante di Pasolini nei suoi film si esterna quando sceglie di articolarli per argomentazioni e opposizioni binarie di idee, quando anche nella struttura narrativa sembra fare il verso a tragici come Strindberg come accade in Teorema, o quando, più direttamente, sceglie di adattare per il cinema due millenarie tragedie greche, l’Edipo re e la Medea, contaminandole con il presente in un modo mai scontato. Ma, nei suoi discorsi e nei suoi scritti politici, che è la parte della sua produzione che stiamo affrontando ora – nei suoi discorsi e nei suoi articoli corsari Pasolini dimostra un atteggiamento tragico nel pregiudizio consapevole che caratterizza tutti i suoi testi dell’ultimo periodo, tutti i pamphlet d’occasione pubblicati sul «Corriere della Sera».
È difficile elencare esattamente in cosa consista, l’atteggiamento che Pasolini assume nello scavalcare il reale e adagiarvi le sue categorie – ma possiamo dire che, se al posto o accanto alle strutture marxiste d’analisi Pasolini sempre più spesso fa riferimento a concetti propri oppure della tradizione semiotica, nell’argomentazione ogni singolo fatto politico, culturale o sociale dell’Italia di quegli anni si trova trasposto di scenario, inserito in un terreno di scontro dove il mitico si fa contemporaneo, e viceversa. Tutto è simbolo, tutto è senso, tutto è estremizzato: dai capelli degli hippies a certe sfumature del linguaggio di Moro, dalle sentenze della Sacra Rota a un violento dibattito con Italo Calvino sul valore da attribuire all’Italia “popolare”, lo sguardo di Pasolini passa senza soluzione di continuità dalla storia alla metastoria, suggerendo anche a noi di fare lo stesso e di raggiungerlo in una prospettiva quasi mitica, di cui i suoi film si fanno portavoce e specchio.

«Protagonista dei miei film è stata così la corporalità popolare», continuava a dire P.P.P. nel suo intervento Tetis, e questo proprio perché, nell’«epoca del Consumismo e della Sottocultura» è andata a perdersi «ogni realtà, la quale è sopravvissuta quasi unicamente nei corpi e precisamente nei corpi delle classi povere». «Non potevo», aggiunge Pasolini, «non giungere alle estreme conseguenze di questo assunto», nella rappresentazione sfrenata e gioviale della sessualità che caratterizza il Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle Mille e una notte, che a dicembre 1973, al momento del convegno, era già stato girato ma ancora doveva uscire; eppure, pur vantandosi che il suo esempio ha permesso a film come Ultimo Tango a Parigi di Bertolucci di essere prodotti e distribuiti, pur non rinnegando alcuna delle scelte artistiche compiute in quei tre film, nella seconda parte del suo intervento Pasolini vuole ribadire di conoscere le ambiguità della nuova opinione pubblica che lui in primis ha contribuito a formare. «Il potere permissivo proteggerà tale nuova opinione pubblica» e «l’eros è nell’area di tale permissività», ma questo non è un bene: vuol dire che l’eros è diventato «insieme fonte e oggetto di consumo». E di questo mutamento i film della Trilogia della vita non sono complici, ma corresponsabili.
Qualche mese prima del convegno di Bologna, in un articolo sul Corriere della Sera intitolato Libertà e sesso secondo Pasolini, P.P.P. aveva per la prima volta preso atto dei numerosi film di bassa qualità e alto tasso di erotismo, ribattezzati decamerotici, che avevano preso piede dopo i suoi adattamenti di Boccaccio e di Chaucer – ne aveva preso atto, ma aveva detto chiaro e tondo di non pentirsi di averli girati. Quindici mesi dopo l’intervento di Bologna, Pasolini avrebbe scritto una dolorosa Abiura alla Trilogia della Vita, poi pubblicata per mezzo stampa, postuma, poco prima della première di Salò o le Centoventi giornate di Sodoma – un film, quest’ultimo, in cui la nudità era altrettanto se non ancora più presente rispetto al Decameron, ma con toni infinitamente più foschi, sadici, sopraffattori. Questa celebre Abiura era già anticipata da quella chiosa al termine dell’intervento Tetis, in cui Pasolini affermava di non poter più fare film come il Decameron, perché gli mancherebbe la materia fisica, organica, i corpi nudi a cui attingere – ma l’Abiura trasudava di pessimismo e di un senso di sconfitta storica che l’intervento di Bologna proprio non aveva.
Ma perché aveva intitolato Tetis questo discorso? Che senso aveva dedicare a Teti un’orazione di carattere così apertamente politico? La risposta a queste domande non sta solo nella constatazione del carattere “tragico” che in maniera crescente caratterizzò la visione politica di P.P.P., fino ad esplodere nei primi anni settanta: la risposta sta anche nell’unica occorrenza che il nome della dea effettivamente ha nel testo, nonché nelle altre due menzioni di Teti che si possono trovare all’inizio e alla fine della vita di Pasolini.
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«Anche se ne Il Fiore delle Mille e una notte e nel prossimo film […] continuerò a rappresentare anche la realtà fisica e il suo blasone, Tetis, mi pento dell’influenza liberalizzatrice che i miei film eventualmente possano aver avuto nel costume sessuale della società italiana». È qui che Pasolini scomoda veramente la dea, nel suo intervento al convegno: e ad usare Tetis come simbolo e blasone della “realtà fisica”, P.P.P. non si limita ad esprimere miticamente la carnalità, il sesso, e la nudità in sé e per sé – in quel breve passaggio, proprio grazie all’uso di un’espressione come “realtà fisica”, Pasolini sembra aprire nuovi orizzonti al senso del suo discorso. Non ha detto “realtà sessuale” – ha detto “realtà fisica”. Ritorna a che qui, in Tetis, quella stessa «identificazione dell’incesto con la realtà» di cui si parlava in Teorema libro, estremizzata qui in un’equazione tra realtà e sessualità tout court.

Fuggiamo al termine della produzione pasoliniana. Petrolio, romanzo incompiuto, romanzo leggendario, il romanzo, secondo alcuni, a causa del quale Pasolini è morto, per le rivelazioni sui “poteri forti” della società italiana che avrebbe dovuto contenere – Petrolio ha un protagonista che si scinde in due, letteralmente. Il suo nome è Carlo, ma ce ne sono due: di giorno, c’è Carlo di Polis, ingegnere dell’ENI di fede politica cattocomunista, di notte, invece, prende sopravvento Carlo di Tetis, dalla chiacchierata “erezione invincibile”, ossessionato da una sessualità notturna, clandestina, da suburra. Pasolini stesso, nel parlare della sua omosessualità e della sua chiacchierata vita notturna, aveva a volte fatto riferimento al Dottor Jekyll e Mister Hyde di Stevenson: questo vecchio canovaccio narrativo torna con particolare forza in Petrolio, alternando le più contraddittorie esperienze via via che Carlo da un lato, come Polis, si fa strada nelle gerarchie segrete dell’ENI, dall’altro lato, come Teti, compie esperienze sessuali sempre più drastiche e orgiastiche.
Su Petrolio si potrebbero dire molte cose, tanto più che è fresca di stampa una nuova edizione critica curata da Walter Siti e Maria Careri dopo la storica edizione del 1992 arrivata già a diciassette anni di distanza dall’omicidio del grande intellettuale: ma andiamo piuttosto all’altro capo della vita di Pasolini, arriviamo alla sua infanzia più lontana. In un passo della sua opera, preservato nel volume delle Lettere, che deve la celebrità anche al fatto che Laura Betti lo scelse per dare il titolo alla sua autobiografia, Pasolini ricorda la prima volta che avvertì un desiderio sessuale. «Fu a Belluno, avevo poco più di tre anni. dei ragazzi che giocavano nei giardini pubblici di fronte a casa mia, più di ogni altra cosa mi colpirono le gambe soprattutto nella parte convessa interna al ginocchio… Vedevo in quei nervi scattanti un simbolo della vita che dovevo ancora raggiungere: mi rappresentavo l’essere grande in quel gesto di giovanetto corrente. Ora so che era un sentimento acutamente sensuale».

Ad appena tre anni, Pasolini non sapeva come chiamare quel «senso dell’irraggiungibile, del carnale» provato a vedere i ragazzini che giocavano – e anche ad anni di distanza P.P.P. continuava a definirlo «un senso per cui non è stato ancora inventato un nome». Eppure, istintivamente, il futuro poeta trovò un modo per esprimersi, un modo per indicare quella sensazione irridente e implacabile. «Io lo inventai allora e fu teta veleta. Già nel vedere quelle gambe piegate nella furia del gioco mi dissi che provavo teta veleta qualcosa come un solletico, una seduzione, un’umiliazione». Teta, tra Tetis e “tetta”: trent’anni dopo, il grande critico Gianfranco Contini, a cui Pasolini aveva fatto cenno dell’episodio, glielo avrebbe spiegato nei termini di un reminder decisamente preistorico e misterioso, dal momento che da un lato quel termine inventato invocava il nome della ninfa dei mari, dall’altro si riallacciava anche al termine thethe, che in greco antico significa “bisogno”, “mancanza” e anche “sesso”, come sa chi frequenta Platone.
Qui si sconfina nello junghiano puro e duro, in suggestioni che sarebbe facile spiegare evocando un’idea forse illusoria di inconscio collettivo. Ma prima di lanciarci in avventate interpretazioni metapsichiche, faremmo bene a considerare in via prioritaria il carattere definitorio che trasuda da questa radicale continuità terminologica nell’opus pasoliniano. Dalla prima, inconsapevole “licenza” poetica, teta velata – fino ai personaggi alla struttura profonda dell’ultimo romanzo, postumo e incompiuto — passando per un apparentemente convegno sociologico e politico, P.P.P. inscrive tutta la sua opera nel nome di Tetis, nel segno di una sessualizzazione dell’esistente che non è mai riduttiva, ma sempre fertile, feconda – seminale – nell’indagare i più arcani nessi tra la sessualità, la generazione, la vita, la società, l’arte, la creazione.

Il compleanno di Pasolini cadeva il 5 marzo, e in questo 2022 che ne segna il centenario ci ritroviamo sommersi da un mare di celebrazioni, di pubblicazioni, di commemorazioni, che continueranno a fare di Pasolini un perturbante santino culturale piuttosto che un corpus artistico e politico da sottoporre ad analisi critica. Forse si è anche esagerato, negli ultimi anni per non dire decenni, nell’attribuire a P.P.P. un’attualità sovrastante, una predominanza culturale, addirittura capacità letteralmente “profetiche”. Ma certo non si può dire che manchino di una pertinenza anche sinistra nei confronti del nostro presente parole come queste, che Pasolini pronunciò proprio nel convegno di Bologna: «venuti in possesso della libertà sessuale per concessione, e non per essersela guadagnata, i giovani l’hanno ben presto e fatalmente trasformata in obbligo. L’obbligo di adoperare la libertà concessa: il più tremendo degli obblighi». Sotto il segno di Teti, in nome di quell’attualità degli archetipi che anche un fine psicologo come James Hillman rimarcava – al di là di ogni mitologizzazione, della grecità o di Pasolini stesso, è forse a queste parole che potremmo rivolgerci alla ricerca di nuovi, antichi sguardi con cui squadrare un presente incerto.
Bibliografia
Massimo Fusillo, La Grecia secondo Pasolini. Mito e cinema, Carocci Editore, Roma 2007
James Hillman, Figure del mito, Adelphi 2014, traduzione di Adriana Bottini
Italo Moscati, Pasolini e il Teorema del sesso. 1968: dalla Mostra del cinema al sequestro. Un anno vissuto nello scandalo, il Saggiatore, Milano 1995
Pier Paolo Pasolini, Per il cinema, Mondadori – Meridiani, Mondadori, Milano 2001, a cura di Walter Siti e Franco Zabagli
Pier Paolo Pasolini, Teorema, Garzanti, Milano 2015, con una prefazione di Attilio Bertolucci
Pier Paolo Pasolini, Lettere Luterane, Garzanti, Milano 2015, prefazione di Guido Crainz
Pier Paolo Pasolini, Petrolio, Garzanti, Milano 2022, a cura di Maria Careri e Walter Siti
Alessandra Spadino, Pasolini e il cinema ‘inconsumabile. Una prospettiva critica della modernità, Mimesis Cinema, Milano – Udine 2012

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