
Il documentario di poesia e la semiotica in Pasolini
I motivi ispiratori della produzione cinematografica di Pier Paolo Pasolini sono gli stessi che innervano l’intera sua opera letteraria. Se molto è stato detto sulla Trilogia della borgata, di minor fama godono invece i suoi documentari di poesia, dove la ricerca di uno stile lirico si fa ancora più raffinata. Lo sguardo della macchina da presa e la voce dell’autore restituiscono la visione pasoliniana del mondo, sulla base dei precetti teorizzati dall’autore nei suoi scritti cinematografici.
Cinema di prosa e cinema di poesia
Esiste una distinzione fondamentale tra quello che possiamo definire cinema di prosa e il cosiddetto cinema di poesia, secondo di Pasolini. Nel primo i protagonisti sono i personaggi, la loro storia, il loro ambiente, e il montaggio non si avverte. Ciò significa che “non si sente la lingua” – intesa come linguaggio cinematografico: il montaggio – ma prevale il contenuto che viene narrato. L’esempio più eclatante è rappresentato dal cinema classico hollywoodiano – non a caso definito “cinema narrativo”. Nel cinema di poesia invece il vero protagonista è lo stile e soprattutto la macchina da presa “si sente”. Ciò significa che gli stacchi di montaggio non solo sono avvertiti, ma addirittura ricercati. Ecco quindi che l’autore di cinema – finora considerato sempre al pari di un romanziere per l’uso prosaico del suo linguaggio, sia esso letterario o cinematografico – può ora diventare, nella concezione pasoliniana, un poeta.
«Qual è la differenza fondamentale tra questi due tipi di cinema, il cinema di prosa e il cinema di poesia? Il cinema di prosa è un cinema in cui lo stile ha un valore non primario, non appariscente, non clamoroso: mentre lo stile del cinema di poesia è l’elemento centrale, fondamentale. In parole molto povere, nel cinema di prosa, non si sente la macchina da presa e non si sente il montaggio, cioè non si sente la lingua – la lingua traspare sul contenuto e ciò che conta è quello che viene narrato. Nel cinema di poesia invece si sente fortemente la macchina da presa, si sente fortemente il montaggio»
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Semiotica pasoliniana
Per comprendere come avvenga il passaggio da cineasta a poeta è opportuno procedere con alcune osservazioni a proposito della semiotica pasoliniana. In generale, i linguaggi letterari fondano le loro invenzioni poetiche sulla base di una lingua comune a tutti i parlanti: uno strumento condiviso. In semiotica lo definiremmo un “insieme di segni comune”. Il cinema, al contrario della letteratura, non possiede tale base comune. Gli uomini comunicano con le parole, non con le immagini, e un linguaggio fatto puramente di immagini risulterebbe un’astrazione artificiale.
Eppure il cinema è in grado di comunicare e ciò significa che anch’esso si fonda su un patrimonio di segni comune. La semiotica – lo studio dei segni – si pone in maniera indifferente e imparziale nei confronti dei diversi sistemi di segni. Accanto ai sistemi di segni linguistici che si basano sulle parole – quelli che Pasolini chiama lin-segni – troviamo ad esempio i segni mimici del parlato. Un linsegno accompagnato da una espressione veicola un certo significato, ma se cambia l’espressione con cui lo accompagniamo ne assume uno ben diverso.
Per quanto riguarda il cinema, secondo il cineasta bolognese, possiamo presupporre un ipotetico sistema condiviso di segni visivi. Del resto, il destinatario cinematografico è abituato a “leggere” anche visivamente la realtà e ad avere un colloquio con essa. La realtà ai suoi occhi si esprime con la pura e semplice presenza ottica dei suoi atti e delle sue abitudini. Oggetti e cose che ci circondano ci parlano brutalmente attraverso la loro sola presenza. Inoltre Pasolini afferma che è possibile creare un analogo sistema di im-segni significanti. Si pensi al mondo della memoria e dei sogni, che è insito nell’essere umano. Ogni sforzo di ricostruzione della memoria è dato da un susseguirsi di immagini – imsegni per meglio dire – così come avviene per un sogno.
«Insomma c’è un complesso mondo di immagini significative – sia quelle mimiche o ambientali che corredano i linsegni, sia quelle dei ricordi e dei sogni – che prefigura e si propone come fondamento «strumentale» della comunicazione cinematografica»
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Una doppia operazione
Se la comunicazione strumentale basata sui segni linguistici è estremamente elaborata, al contrario la comunicazione visiva su cui si basa il linguaggio cinematografico è rozza e animale. La mimica, i sogni, i meccanismi della memoria – appannaggio dell’inconscio – sono infatti pre-umani, pre-grammaticali e pre-morfologici. Lo strumento linguistico del cinema è irrazionalistico perché irrazionalistiche sono le basi su cui poggia.

Sempre secondo il poliedrico autore di Casarsa, il sistema dei linsegni è racchiuso in un dizionario: ognuno di noi infatti ha in testa un dizionario lessicalmente incompleto ma praticamente perfetto. Ricorriamo a termini che non hanno la pretesa di esaurire l’immensa quantità di referenti che esistono, ma impieghiamo unicamente quelli che servono a descrivere la realtà che ci circonda e ci interessa. Lo scrittore poi, nell’impiego di un termine, sceglie in relazione al significato che quel termine assume per lui in quel preciso momento storico. Ogni sua operazione espressiva aggiunge storicità e realtà alla lingua, compie cioè una rielaborazione del significato del segno.
Per l’autore cinematografico – sostiene Pasolini – il discorso si fa più complicato. Innanzitutto, non esiste un dizionario di immagini: nessuna immagine è pronta e incasellata per l’uso. L’autore cinematografico non attinge da un dizionario, bensì dall’infinita possibilità del reale. Questo fa sì che la sua operazione sia duplice e si configuri come:
- Un’operazione linguistica: l’autore cinematografico seleziona dal caos un imsegno, lo rende possibile e lo presuppone come sistemato in un personale dizionario di imsegni per lui significativi.
2. Un’operazione estetica: l’autore cinematografico aggiunge poi all’imsegno (che è esclusivamente morfologico) una qualità espressiva individuale (compie cioè l’operazione dello scrittore).
In altre parole, l’operazione dello scrittore è puramente estetica, mentre quella del cineasta è prima linguistica e solo in un secondo momento estetica. Ogni volta che un autore cinematografico fa un film, deve ripetere questa doppia operazione. Nella storia del cinema si è venuta a creare una convenzione che è prima stilistica e poi grammaticale. Non esisterà mai una normatività grammaticale per il cinema, ma solo una grammatica estetica. In compenso, essendo la tradizione stilistica del cinema non particolarmente longeva se paragonata alle altre arti, il cineasta può contraddirla senza causare eccessivo scandalo: la sua aggiunta storica all’imsegno si applica a un imsegno di vita – relativamente – cortissima. L’idea di Pasolini cineasta è che la labilità del cinema derivi forse e in parte anche da questo: dal cronologico esaurimento del mondo degli oggetti a cui rimandano i suoi imsegni. È il motivo, ad esempio, per cui il linsegno “vestiti” non potrà corrispondere allo stesso imsegno per un film ambientato negli anni ’30 e un altro ambientato negli anni ’70.
È anche vero che, non appartenendo ad alcuna grammatica, gli imsegni costituiscono di fatto un patrimonio comune. La pre-grammaticalità degli oggetti è un diritto nello stile dell’autore cinematografico. Non esistono oggetti bruti: tutti possono assumere valenze simboliche. È il cineasta ad attribuirgliele.
«Niente come fare un film costringe a guardare le cose. Lo sguardo di un letterato su un paesaggio, campestre o urbano, può escludere un’infinità di cose, ritagliando dal loro insieme solo quelle che emozionano o servono. Lo sguardo di un regista – su quello stesso paesaggio – non può invece non prendere coscienza – quasi elencandole – di tutte le cose che vi si trovano. Infatti mentre in un letterato le cose sono destinate a divenire parole, cioè simboli, nell’espressione di un regista le cose restano cose: i «segni» del sistema verbale sono dunque simbolici e convenzionali, mentre i «segni» del sistema cinematografico sono appunto le cose stesse, nella loro materialità e nella loro realtà. Esse divengono, è vero, «segni», ma sono i «segni», per così dire viventi, di se stesse»
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Dunque il cinema per Pasolini è fondamentalmente onirico per l’elementarità dei suoi archetipi. Questi ultimi sono così riassumibili: osservazione abituale – e quindi inconscia, inconsapevole – dell’ambiente; mimica; memoria; sogni. Non possono essere accolti tra gli archetipi del cinema termini astratti – motivo per cui il cinema è un linguaggio artistico e non filosofico. Può essere fatto di parabole, ma mai ricorrere ad un’espressione concettuale diretta. Parole chiave dell’esperienza cinematografica sono dunque: artisticità, violenza espressiva e fisicità onirica.
Tutto questo sembrerebbe suggerire di lasciare ampio spazio alla poesia, quando Pasolini rileva che ad essersi affermata, al contrario, è una tradizione di prosa narrativa. Si tratta tuttavia di una prosa surrettizia: il cinema si è affermato come nuova tecnica o genere di spettacolo di evasione, ed è stato mercificato e sfruttato per sopire le coscienze.
«Tutti i suoi elementi irrazionalistici, onirici, elementari e barbarici, sono stati tenuti sotto il livello della coscienza: sono stati cioè sfruttati come elemento inconscio di urto e di persuasione: e sopra questo «monstrum» ipnotico che è sempre un film, è stata costruita rapidamente quella convenzione narrativa che ha fornito materia di inutili e pseudo-critici paragoni col teatro e il romanzo»
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La prosa cinematografica così intesa manca di un elemento sostanziale: la razionalità.
Linguaggio cinematografico: soggettivo e oggettivo
La tradizione della lingua cinematografica è tendenzialmente naturalistica e oggettiva. Questo si spiega perché gli imsegni hanno due tipologie di archetipi:
- Memoria e sogno: sono propri della comunicazione con sé stessi. Pongono una base di soggettività e quindi comportano un’appartenenza di massima al mondo della poeticità. La tendenza di questa categoria di archetipi è espressivamente soggettivo-lirica.
2. Integrazione mimica del parlato e realtà vista dagli occhi: sono invece propri della comunicazione con gli altri e brutalmente oggettivi. La loro tendenza è dunque piattamente oggettiva e narrativa.

Tuttavia, ricorda l’autore, si presuppone una scelta soggettiva anche nella selezione degli imsegni che costituiscano la base strumentale del linguaggio cinematografico – ovvero nella costruzione del “dizionario di immagini” dell’autore cinematografico. Siamo di fronte ad un esempio di coazione tra oggettività e soggettività. Un enorme numero di destinatari implica una limitazione espressiva, quindi la breve storia stilistica del cinema istituzionalizza gli stilemi, assicurando una convenzionalità oggettiva. Il cinema è estremamente oggettivo ed estremamente soggettivo. I due aspetti non sono separabili, al contrario di quanto avviene nella lingua della letteratura, dove prosa e poesia mantengono netti i loro confini. Attraverso le parole io posso fare poesia o racconto, ma attraverso le immagini posso fare solo cinema – con maggiore o minore tendenza alla poeticità o alla prosaicità.
All’atto pratico però si è rapidamente affermata quella che Pasolini definirebbe una «lingua della prosa cinematografica narrativa». Un’eccezione a questa tendenza citata dall’autore è Le chien andalou di Bunuel, che possiede, però, come patente legittimante il suo status di film surrealista. Il cinema di per sé – e senza alcun tipo di patente legittimante o pretestuale alle spalle – manca di un lessico concettuale e astratto: pertanto essere solo potentemente metaforico.
«Quel tanto di poeticamente metaforico che è clamorosamente possibile nel cinema, è sempre in stretta osmosi con l’altra natura, quella strettamente comunicativa della prosa. Che è poi quella che è prevalsa nella breve tradizione della storia del cinema, abbracciando in una sola convenzione linguistica i film d’arte e i film d’evasione, i capolavori e i feuilletons»
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È possibile nel cinema una “lingua della poesia”?
Per rispondere a questa domanda, Pasolini passa attraverso un’altra domanda: «È possibile nel cinema la tecnica del discorso libero indiretto?». Quando parla di discorso libero indiretto Pasolini fa riferimento all’immersione dell’autore nell’animo del suo personaggio, con conseguente adozione della psicologia e della lingua di quest’ultimo. Nel panorama italiano il discorso libero indiretto vanta alle spalle una lunga tradizione letteraria – si vedano Dante, Verga e il suo Naturalismo, i Crepuscolari, ecc. Caratteristica costante in tutti questi impieghi è quella di non poter prescindere da una certa coscienza sociologica dell’ambiente evocato – non è un caso che lo stesso Verga si sia arrestato giunto alla soglia del rango della Duchessa di Lyera.
A differenza del monologo interiore – che è una questione puramente di stile in cui la lingua adottata dall’autore per rivivere il discorso del personaggio può anche non essere la stessa del personaggio – il libero indiretto è una questione puramente di lingua, trattandosi di un discorso diretto senza virgolette.
«Bisognerà poi fare una distinzione tra monologo interiore e discorso libero indiretto: il monologo interiore è un discorso rivissuto dall’autore in un personaggio che sia almeno idealmente del suo censo, della sua generazione, della sua situazione sociale: la lingua può essere dunque la stessa: l’individuazione psicologica e oggettiva del personaggio non è un fatto di lingua, ma di stile. Il «libero indiretto» è più naturalistico, in quanto è un vero e proprio discorso diretto senza le virgolette, e quindi implica l’uso della lingua del personaggio»
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Al cinema il discorso diretto corrisponde alla soggettiva; il discorso libero indiretto, invece, alla «soggettiva libera indiretta». È quest’ultima più vicina al discorso libero indiretto o al monologo interiore? Certamente non si tratta di monologo interiore, perché il cinema non possiede la possibilità di interiorizzazione e di astrazione che ha la parola e come abbiamo visto manca della dimensione astratta e teorica. Se da un lato non può essere un monologo interiore, dall’altro nella concezione pasoliniana, la soggettiva libera indiretta corrisponde ancor meno al discorso libero indiretto.
Per lo scrittore ricorrere al libero indiretto è semplice dal momento che esistono lingue diverse per condizioni sociali diverse. Al cinema invece non esiste una lingua istituzionale. E se anche esistesse, quest’ultima non sarebbe differenziata nelle sue varianti: gli occhi sono uguali in tutto il mondo. Nel variegato mondo del cinema non esistono gerghi, dialetti o sublinguaggi.
«Ché, effettivamente, lo «sguardo» di un contadino – magari addirittura di un paese o di una regione in condizioni preistoriche di sottosviluppo – abbraccia un altro tipo di realtà, che lo sguardo, dato a quella stessa realtà, di un borghese colto: i due vedono in concreto «serie diverse» di cose, non solo, ma anche una cosa in se stessa risulta diversa nei due «sguardi». Tuttavia, tutto ciò non è istituzionalizzabile, è puramente induttivo»
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La differenza che un regista può cogliere tra sé e il personaggio è sicuramente psicologica e sociale, ma non può mai essere linguistica – spiega il bolognese. Il regista non può usufruire della lingua come strumento differenziante: deve necessariamente ricorrere allo stile. Dunque, la soggettiva libera indiretta non è una questione linguistica, bensì stilistica. Attraverso l’analisi di alcuni film – si vedano gli esempi di Antonioni, Il deserto rosso; Bertolucci, Prima della rivoluzione; la filmografia di Godard – Pasolini dimostra come sia andata lentamente ma effettivamente affermandosi una lingua della poesia.
«Tale tradizione tecnico-stilistica nascente si fonda sull’insieme di quegli stilemi cinematografici, che si sono formati quasi naturalmente in funzione degli eccessi psicologici anomali dei protagonisti scelti pretestualmente: o meglio in funzione di una visione sostanzialmente formalistica del mondo (informale in Antonioni, elegiaca in Bertolucci, tecnicistica in Godard ecc. ecc.). Esprimere tale visione interiore richiede necessariamente una lingua speciale, coi suoi stilismi e i suoi tecnicismi compresenti all’ispirazione, che, essendo appunto formalistica, ha in essi insieme il suo strumento e il suo oggetto»
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In tutti i casi presi in esame da Pasolini però lo stile poetico è giustificato dal ricorso a personaggi psicologicamente instabili o malati, che costituiscono il pretesto ideale e rendono necessario l’impiego di una lingua speciale per riuscire a restituire la loro interiorità. Il linguaggio adoperato per i monologhi interiori di questi personaggi “pretestuali” è il linguaggio di una «prima persona» che vede il mondo secondo un’ispirazione sostanzialmente irrazionalistica. Inoltre, i personaggi pretestuali non possono che essere scelti nello stesso ambito culturale dell’autore: sono cioè analoghi a lui per cultura, lingua e psicologia. Qualora appartengano ad altro mondo sociale, vengono allora assimilati al mondo dell’autore attraverso la tipizzazione dell’anomalia, della nevrosi o dell’ipersensibilità.

La borghesia, insomma, anche nel cinema, ridentifica se stessa con l’intera umanità, in un interclassismo irrazionalistico […] L’evoluzione, possiamo dire antropologica, della borghesia, secondo le linee di una «rivoluzione interna» del capitalismo: cioè il neocapitalismo che mette in discussione e modifica le proprie strutture, e che, nella fattispecie, riattribuisce ai poeti una funzione tardo-umanistica: il mito e la coscienza tecnica della forma»
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Gli stilemi della lingua poetica
Tra gli stilemi cinematografici nati da questa tradizione che non ha norme – se non intuitive e pragmatiche – c’è il “far sentire la macchina da presa”, che tradotto da Pasolini in alcuni esempi pratici comporta:
«l’alternarsi di obbiettivi diversi, un 25 o un 300 sulla stessa faccia, lo sperpero dello zum, coi suoi obbiettivi altissimi, che stanno addosso alle cose dilatandole come pani troppo lievitati, i controluce continui e fintamente casuali con i loro barbagli in macchina, i movimenti di macchina a mano, le carrellate esasperate, i montaggi sbagliati per ragioni espressive, gli attacchi irritanti, le immobilità interminabili su una stessa immagine ecc. ecc»
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Si tratta di un codice tecnico nato per insofferenza alle regole, spinta alla libertà e provocazione; e subito divenuto canone linguistico e prosodico per tutte le cinematografie del mondo. La più importante svolta nell’opera e poetica dell’autore è sancita dal passaggio dalla letteratura al cinema, ovvero: dall’impiego di metafore per significare il mondo, alla pura realtà, etnografia e tecnica. Ma perché mai uno scrittore affermato come Pasolini decide di passare al cinema?
Voler vedere totalmente realizzata una mia sceneggiatura, parola per parola, dialogo per dialogo. Il desiderio di esprimermi con il cinema rientra dal mio bisogno di adottare una tecnica che significa il desiderio di uscire dall’ossessivo
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Una sceneggiatura è chiusa in sé stessa e deve pertanto mantenere necessariamente l’allusione al film da farsi. Inoltre richiede la collaborazione del lettore, che deve prestare al testo una compiutezza visiva che il testo da solo non possiede.

Due esempi di poesia
Troviamo applicazione diretta di tutti questi precetti nei documentari di poesia pasoliniani. Due esempi celebri sono senz’altro rappresentati da Appunti per un film sull’India (1967-1968) e Appunti per un’Orestiade africana (1968-1969). Il progetto iniziale, Appunti per un poema sul Terzo Mondo, originariamente pensato in cinque episodi, non verrà mai realizzato. Per entrambi i documentari Pasolini riprende una antica trama – la leggenda indiana della maharaja nel primo; il mito greco di Oreste per il secondo – e tenta di calarla nel contesto socio-culturale dell’India e dell’Africa a lui contemporanee. Poesia, realtà, ontologia, essenza, mito, senso del sacro, antichi valori: sono le matrici che alimentano la ricerca di Pasolini cineasta. Obiettivo dei due film è verificare le condizioni di possibilità per cui questi archetipi narrativo-simbolici possano ripresentarsi oggi.
La scelta dell’ambientazione è invece legata al fatto che Pasolini veda nel Terzo Mondo l’unica alternativa alla società consumistica. L’intera sua opera – e in questo non fa certo eccezione la produzione cinematografica – è votata contro il ritorno dei fascismi striscianti e l’ipocrisia borghese – da sempre sua più intima contraddizione. Il tentativo di sventare la perdita del proprio passato, delle tradizioni e degli antichi valori innerva in un primo momento la ricerca nelle borgate di Roma. Alla base della sua ispirazione, chiaramente individuabile risulta la matrice del pensiero di Gramsci: ovvero la teorizzazione di una rivoluzione sociale basata sulla rivolta dei contadini, e non del sottoproletariato industriale. In altre parole: la necessità di unire proletari settentrionali e contadini meridionali.
Ma si illude. A seguito della cocente delusione per la perdita di autenticità da parte del sud Italia, l’interesse pasoliniano per il Terzo Mondo esplode in una duplice declinazione. Da un lato è animato dalle lotte rivoluzionarie di liberazione dal colonialismo; dall’altro dalla fascinazione per gli antichi valori, la sacralità e la barbarie – intesa come buonsenso, uno stato che precede la civiltà.
Il limite della soggettiva libera indiretta – individuato nelle analisi condotte nei suoi saggi – viene qui superato perché nei suoi documentari non c’è pretesto. A differenza dei personaggi della filmografia da lui stesso presa in esame, qui non ci sono personaggi – al più una ricerca di personaggi tra i volti inquadrati dalla sua cinepresa. È Pasolini stesso che parla in soggettiva diretta libera. Si pensi ad esempio alla scena di apertura di Appunti per un’Orestiade africana, in cui Pasolini spiega l’intento del film e dichiara la propria presenza attraverso il riflesso della vetrina di un negozio.
Più tardi giungerà l’ammissione che neanche il Terzo Mondo rappresenta un luogo in cui poter continuare a vivere di una cultura incentrata sul mito e sul sacro. Questa delusione, ancor più cocente della precente, comporterà la definitiva sconfitta di una visione di
«progresso armonico che assorba le culture arcaiche, sulla base della constatazione che sempre “ciò che è sacro si conserva accanto alla sua nuova forma sconsacrata”».
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Note
[1] Da una lettera di Pasolini a Marco Bellocchio.
[2] PASOLINI, Il «Cinema di Poesia», 1965.
[3] Da PIER PAOLO PASOLINI, Paragrafo sesto: impotenza contro il linguaggio pedagogico delle cose in Lettere Luterane, Garzanti, Milano 2009, p. 50-53.
[4] PASOLINI, Il «Cinema di Poesia», 1965.
[5] Ibidem.
[6] Ibidem.
[7] Ibidem.
[8] Ibidem.
[9] Ibidem.
[10] Ibidem.
[11] Giulio Mazzocchi, Pasolini regista, “Il Punto”, 22 ottobre 1960
[12] DE PALMA MARIANNA, Pasolini. Il documentario di poesia, Edizioni Falsopiano, Alessandria 2009
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