
Una vita in viaggio – Intervista a César Brie
César Brie è una delle figure più importanti del teatro internazionale contemporaneo. Artista poliedrico, ha creato e curato la produzione di decine di spettacoli nel corso di una carriera teatrale lunga cinque decenni, che ha attraversato epoche e continenti, emozionando spettatori di ogni provenienza geografica, estrazione sociale ed età anagrafica. César è una personalità rara e preziosa, che ricorda per certi versi gli immortali personaggi del realismo magico, genere letterario che, forse non a caso, è proprio figlio delle sue terre d’origine.

Riassumere la sua esistenza e la sua traiettoria lavorativa in poche righe è, dunque, compito pressoché impossibile. Basti pensare alla quantità di Paesi in cui ha vissuto e coltivato la sua arte, in condizioni spesso estremamente avverse, per ragioni economiche o politiche. Dopo aver cominciato durante l’adolescenza a calcare i primi palchi in Argentina, César Brie chiede asilo come rifugiato politico a Milano, dove ottiene i primi successi di pubblico e critica, anche e soprattutto grazie all’opera A rincorrere il Sole del 1978. Negli anni immediatamente successivi incontra l’attrice Iben Nagel Rasmussen, una delle fondatrici dell’Odin Teatret, che César Brie definisce tuttora come la sua maestra per eccellenza. Oltre allo stretto rapporto professionale di ricerca, i due instaurano una relazione sentimentale, che porta César a vivere in Danimarca, dove fonda il gruppo Farfa e collabora con l’Odin.
La brusca rottura con Eugenio Barba e la fine della storia con Iben riconducono César in Sudamerica, più precisamente in Bolivia, a Sucre. Qui, nel 1991, costituisce il Teatro de los Andes, progetto teatrale che unisce la ricerca sulla cultura andina precoloniale alla rivisitazione dei grandi miti europei. In particolare la loro versione dell’Iliade, datata 2000, rappresenterà un successo di portata mondiale. Dopo vent’anni di intenso lavoro comune, César abbandona il Teatro de los Andes e la Bolivia, a seguito di screzi con gli altri membri della compagnia e di minacce provocate dall’uscita del suo documentario Tahuamanu, reportage incentrato su un tragico episodio di violenza, avvenuto l’11 settembre 2008, durante il quale decine di campesinos che protestavano per il diritto alla terra erano stati uccisi da squadristi legati all’opposizione fascista.
Dal 2010 César Brie lavora tra l’Italia e l’Argentina, alternando l’attività di regista, attore e drammaturgo all’insegnamento in alcune delle più importanti Accademie di recitazione italiane. Nel 2012, sempre in Italia, il suo Karamazov è finalista al premio UBU per la miglior regia.

César, nel tuo approccio all’insegnamento e nel tuo processo creativo, le storie personali degli allievi e degli attori ricoprono un ruolo centrale. All’inizio di ogni seminario richiedi ai tuoi studenti di raccontarti qualcosa su di loro e tu ricambi raccontando un po’ di te. Partiamo da qui, dall’inizio: prova a ripercorre per i lettori i momenti salienti della tua vita e del tuo lavoro, che nel tuo caso vanno spesso a braccetto, come faresti davanti a un gruppo di lavoro appena conosciuto.
Va bene. La prima cifra della mia vita è stata l’amore famigliare incondizionato: in casa siamo in cinque fratelli (dovevamo essere nove, ma quattro purtroppo non hanno superato il parto) e siamo molto uniti, nonostante il poco tempo passato insieme. L’altra cifra della mia vita è stato il viaggio: quando avevo due anni ci siamo spostati nella Terra del Fuoco, quando ne avevo sei a Dolores, poi a Buenos Aires durante l’adolescenza, un anno in Europa, il ritorno a Santa Fé, la fuga in Italia, la Danimarca, la Bolivia, e ora una spola costante tra Italia e Argentina. Insomma, sono in parte attore, in parte migrante.
Un altro elemento importantissimo per me è stata la morte di mio padre quando avevo quindici anni. Per tutti noi era una specie di faro. Una persona calma, dall’etica irreprensibile, mai irrispettosa. Faceva il libraio e a lui devo il mio amore per la letteratura. Forse l’eredità più grande che mi abbia lasciato è stata un’idea. L’idea di non dover mai passare sugli altri, del rispetto verso il prossimo. A tal proposito, ricordo una delle scelte più segnanti della mia vita.
Quando ero bambino, il nostro medico era amico di famiglia. Perciò, se andavo allo studio con mia madre, suonavamo il campanello di casa e saltavamo la fila. Al contrario, se mi accompagnava mio padre, entravamo dal consultorio e aspettavamo come tutti. La prima volta che andai solo dovetti scegliere come comportarmi: far valere la mia conoscenza o mettermi sullo stesso piano di chi non aveva quella piccola fortuna. Istintivamente scelsi di attendere come tutti.
Comincio a raccontarmi a partire dalla mia famiglia anche perché è lì che ho scoperto il teatro. Quasi tutti i miei fratelli facevano parte di una compagnia amatoriale, mentre io non avevo il coraggio di salire sul palco, per quanto fossi fortemente affascinato da quel mondo. Ero troppo timido, scrivevo poesie. Poi, però, anche per sbloccarmi dalla mia timidezza, sono riuscito a superare le mie paure, e alla fine sono stato l’unico della famiglia a fare teatro per professione, dedicandoci tutta la vita. È stata una decisione che rifarei: il teatro mi ha consentito di sentirmi sempre pieno in ogni senso, di dare un corpo alla mie poesie, di elaborare tutti i dolori che ho passato e mi ha forzato ad essere un artigiano e un intellettuale allo stesso tempo.
Un’ ultima cosa da dire per presentarmi riguarda la paternità. Ho fatto figli tardi, a quarantanove anni, e ancora oggi non capisco come ho fatto ad aspettare tanto. Direi che come presentazione può andare.

A proposito della tua propensione giovanile per la poesia, è vero che in giovanissima età hai attirato l’attenzione di Borges con i tuoi componimenti?
In un certo senso, sì. Mia madre conosceva Borges personalmente perché, essendo rettrice di una scuola, aveva organizzato delle sue conferenze quando abitavamo a Dolores. Lo abbiamo addirittura ospitato a pranzo più di una volta. Io ho iniziato a scrivere molto presto, circa a dodici anni, e quando è mancato mio padre la mia produzione è molto aumentata.
Quando avevo sedici anni mia madre riuscì a parlare di me a Borges per chiedergli se fosse interessato a leggere qualcosa di mio, e lui rispose affermativamente, dandomi appuntamento alla Biblioteca Nazionale di Buenos Aires, di cui era direttore. Io andai e cominciai a leggergli alcune mie poesie. Lui era già cieco, quindi mi ascoltava fissando il vuoto. A un certo punto, finisco di leggere una poesia, lui mi ferma e mi chiede di ripeterla. Eseguo. Mi chiede di nuovo di recitarla ancora una volta. Eseguo di nuovo. Poi proseguiamo, ma, da quel punto in poi, qualsiasi cosa gli leggessi veniva liquidata col commento “Minore”. Alla fine mi domanda: “Signor Brie, mi può rileggere quella poesia sulle stelle?”. Eseguo per la terza volta.
Al ché mi dice “Posso dirle una cosa? Mi sarebbe piaciuto scriverla.” Io allora non capii, ma quando tornai a casa e lo raccontai a mia madre, quella per poco non svenne per l’emozione.

Credo che quella poesia gli fosse piaciuta tanto perché era piena di informazioni scientificamente esatte riguardo alle stelle e ai loro cicli. Informazioni che io avevo appreso per via indiretta. Infatti la mia ragazza a quell’epoca, il mio primo amore, aveva otto anni più di me ed era fidanzata ufficialmente con un astronomo che le aveva passato moltissime nozioni estremamente precise, che a sua volta lei mi aveva riportato durante i nostri incontri segreti. Ad ogni modo, col senno di poi concordo con Borges sul fatto che fosse l’unica opera salvabile di quella mia prima raccolta.
Borges mi chiese anche di ripassare da lui, mi disse che mi avrebbe aiutato a crescere come poeta. Il problema è che l’anno successivo, a diciassette anni, io divenni peronista di sinistra, perciò cominciai a considerare Borges come un borghese reazionario e non lo volli più visitare. Che idiota!
Sicuramente è stata una grande occasione persa. Direi, però, che ti sei ampiamente rifatto con la tua carriera come attore, regista e drammaturgo. Tra l’altro ciò che contraddistingue i tuoi lavori è proprio la poesia che li permea. Spesso ricerchi figure retoriche come la metafora e la metonimia nelle immagini che compongono i tuoi spettacoli. E quindi sorge spontanea la terza domanda: come nasce il processo creativo di César Brie? Come sei arrivato a mettere l’estro dei tuoi attori al centro della tua ricerca? E, ancora, come si crea una metafora attraverso un’immagine teatrale?
Per rispondere devo innanzitutto citare i miei maestri, quei mostri sacri da cui ho assorbito tanti aspetti che sono poi diventati fondanti nel mio lavoro. Sicuramente devo menzionare Peter Brook, per la semplicità, e Ariane Mnouchkine, per la coralità. Però, forse, i tre più importanti sono stati la mia maestra diretta Iben, poi Pina Bausch e Tadeusz Kantor.
La prima soprattutto per gli insegnamenti sull’importanza del lavoro col corpo per l’espressione attoriale. Ci tengo a sottolineare che il mio maestro, al contrario di quanto è stato detto molte volte, non è Barba. Barba è stato il maestro della mia maestra. Ma non sono mai stato interessato all’estetica dell’Odin Teatret. Pina Bausch è stata, invece, fondamentale per intuire la potenza della moltiplicazione del singolo gesto. Potremmo dire del plurale che interroga la singola azione. Kantor, infine, mi ha donato un’altra visione.
Quella della regia come composizione di diversi elementi (corpo, testo, azione, oggetto, musica) che, se sapientemente combinati, possono creare delle metafore non letterali che colpiscono a fondo la sensibilità del pubblico.

Il principio basilare per creare una metafora sul palco è cercare di accostare un elemento surreale o straordinario a un altro o altri quotidiani. Ho iniziato a percepire concretamente questa possibilità mentre stavo creando A rincorre il Sole, che alcuni considerano ancora oggi il mio migliore spettacolo, ma l’ho approfondita maggiormente dieci anni dopo, nella regia de Il mare in tasca. Basandomi anche su una domanda incontrata su uno scritto di Pessoa, ho cominciato a chiedermi come potessi mostrare l’invisibile. Sono partito dagli oggetti comuni che erano in scena: sollevavo in piedi la branda e spiegavo che quello era il letto dove vegliavo la mia insonnia. Lì mi sono reso conto che dare un contesto diverso a un oggetto lo trasformava automaticamente in altro. Un processo che risulta molto chiaro in fotografia, dove se cambi la didascalia, modifichi completamente il significato dell’immagine.
Col tempo e l’esperienza, mi sono accorto del fatto che, per ottenere delle metafore potenti, le trovate immaginative del regista non bastano. Serve l’indagine concreta sulla scena, perché è sempre la scena che decide se qualcosa funziona, comunica, o meno. Solo sulla scena si può verificare se gli elementi che compongono l’immagine sono equilibrati e creano qualcosa che non esiste in nessuno degli elementi stessi presi singolarmente.
La fonte principale per trovare questi accostamenti dei vari elementi compositivi sono (e anche qui devo ringraziare l’esempio di Pina Bausch) le improvvisazioni degli attori e degli allievi. Oltre all’osservazione su di me, fare il regista e l’insegnante mi ha mostrato negli anni quanto fertili e pieni di idee possano essere le persone con cui collaboro.

Le ultime domande, César, riguardano la situazione attuale: come hai vissuto il primo lockdown totale della primavera 2020? E quali effetti pensi possa avere questo lungo periodo di costrizione sul teatro di domani?
Il primo lockdown ha bloccato il debutto del mio lavoro su Falcone e Borsellino, e questo non mi ha fatto certo piacere. Però mi ha offerto la possibilità fuori dal comune di trascorrere un periodo così prolungato chiuso dentro un teatro. Allora ho iniziato a scrivere un testo, costruendolo attorno un’idea che coltivavo da un po’. Con il mio collega e amico Gianfranco Berardi, infatti, pensavamo di portare in scena due personaggi che maltrattassero tutto e tutti: il Gatto e la Volpe. Gianfranco, come saprai, è non vedente quindi sarebbe stato un Gatto perfetto, mentre io, essendo più vecchio, mi sarei seduto in carrozzella a interpretare la Volpe.
Tuttavia, in quel momento così duro, avevo un caro amico, Attisani, storico del teatro, che viveva in solitudine a poche centinaia di metri dal teatro dove stavo io. Inoltre, lui non gode di buona salute, ha molti più malanni di me ed era pertanto molto abbattuto e spaventato dalla situazione della quarantena.
Ho scelto, quindi, di inviargli dei frammenti del testo sul Gatto e la Volpe e insieme abbiamo trovato il modo di tirarci su e scambiarci stimoli attraverso la stesura di questo dialogo, che speriamo di rappresentare una volta che tutto questo sarà finito.

Dal punto di vista umano e personale, poi, il lockdown per me è stato un momento per riflettere e perdonare, per rimettermi in contatto con persone che, per diverse ragioni, non sentivo da molto tempo.
In definitiva, il lockdown mi ha consentito di ricercare e pensare senza la solita frenesia. Ho lavorato e scritto ininterrottamente per due mesi. Sinceramente un paio di mesi di lockdown all’anno mi piacerebbero. Sempre. Dopo un anno e mezzo, però, sono stufo.
Guardando la situazione con uno sguardo più ampio, sono molto preoccupato. Credo che la ripresa si presenterà dura per chiunque lavori nel settore della cultura. Tante realtà attive da anni o da decenni sono già fallite in questo periodo, e quando ripartirà tutto, ci saranno centinaia di compagnie ad aspettare al varco con gli spettacoli che dovevano debuttare, più quelli che hanno montato durante lo stop. Quindi sarà molto dura, è inutile negarlo. Forse la speranza si può trovare nella frase di Attisani: “Il teatro sarà così marginale che alla fine diventerà quasi necessario.”
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