
Eugenio Barba e l’Odin Teatret: storia di un lungo viaggio
Eugenio Barba ha annunciato che lascerà il posto di direttore del Nordisk TeaterLaboratorium, chiudendo un’esperienza che era cominciata nel 1964, anno in cui, dopo il secco rifiuto dalla Scuola Teatrale di Stato a Oslo, aveva fondato con un gruppo di amici una società per azioni: cominciava così un’esperienza che avrebbe segnato in modo irreversibile l’evoluzione del teatro novecentesco.
Lasciata la Norvegia, si era spinto fino alla Scuola Teatrale di Varsavia per diventare regista. La abbandonò, ma restò a Opole, dove cominciò un viaggio nella sperimentazione teatrale al fianco di Grotowski. Insieme vissero nella Polonia degli anni Sessanta in cui le autorità, in nome di una conclamata politica culturale di stampo popolare, imponevano una sorta di frenesia della produzione a cui Grotowski aveva voluto sottrarsi finendo in quel Teater Laboratorium di Opole. Durante gli anni del “teatro povero” Barba aveva vissuto, assieme ad altri ribelli ed eretici, il teatro di transizione, l’esperienza dei riformatori che rifiutavano lo spirito del proprio tempo per mettersi in ascolto del mutamento. Era chiaro già allora che per Barba il teatro era viaggio, luogo di allontanamento e incognite, in cui legami impercettibili e ancor più preziosi di solidarietà avviavano il meccanismo della creazione.
Nel 1964, quel gruppo di “non ammessi” si era riunito in un rifugio antiaereo in affitto. Cominciava così la storia del Teatro che porta il nome di Odino, così chiamato per un incontro casuale con una strada che portava lo stesso nome. Fu una scelta efficace: in Odino c’era dentro Wotan, dio della guerra della mitologia nordica, ma anche l’amoch, il furore collettivo che fagocita la razionalità invocando forze oscure. Gli stessi elementi che avevano segnato tutto il secolo bellicoso.
Già nei primi mesi del 1965, l’Odin Teatret aveva organizzato una tournée all’estero del Principe Costante di Growotski; un anno dopo la sua fondazione, fu la volta della prima di Ornitofilene, preparato con scarsi mezzi e in un tempo molto più lungo di quello dedicato alla rappresentazione, riproposta per pochi mesi. La curiosità e lo scetticismo, all’epoca, erano evidenti: un italiano, passato dalla Polonia, lavorava a un teatro senza palcoscenico in un rifugio. Da questo sottosuolo norvegese, il gruppo si spostò a Holstebro, in Danimarca. Il primo lavoro fu Kaspariana, riproposto dal 1966 al 1969 per un pubblico di soli 60 spettatori; e poi ancora Ferai e Il Vangelo di Oxyrhincus, spettacoli che Taviani avrebbe definito “politici” ma alla maniera pasoliniana: c’erano l’azione e il potere, e il pessimismo dell’intelligenza che mai smette di rifiutare con forza l’iniquità e di reclamare la verità. Seppure non in modo manifestamente politico, gli spettacoli all’Odin hanno intrecciato la grande Storia: pur senza diventare monumenti alla memoria, hanno introiettato dentro di sè lo spirito del Tempo contemporaneo, rivitalizzandolo e sprigionandolo con rinnovato vigore. La ferocia dei mali del secolo soffiava nell’amoch.
Intanto, negli anni Settanta, il gruppo cominciava a partecipare a convegni internazionali e incontri di “teatro di gruppo”; molti furono i mesi trascorsi in Italia in preparazione de Il libro delle danze, un montaggio di frammenti del training degli attori, resi forma attraverso scene intensamente drammatiche; alla fine del decennio, il gruppo aveva ormai sperimentato diverse forme di spettacoli di strada con toni clowneschi. Nei primi anni Ottanta, mentre l’Odin lavorava a Ceneri di Brecht, Barba cominciava il lungo lavoro di riflessione antropologica, convocando la prima sessione dell’International School of Theatre Anthropology. Negli stessi anni, gli attori dell’Odin cominciarono ad allontanarsi da Holstebro per rompere con la monotonia del modello teatrale e culturale che avevano appreso fino a quel momento in Occidente: come il fondatore, si misero in viaggio per l’Asia, l’India e il Brasile, alla ricerca di modelli nuovi di teatro e di danza. Quello che interessava Barba e il lavoro all’Odin era una sorta di artigianato teatrale, che esigeva una costante ricerca per la ricomposizione, per la commistione tra elementi sempre nuovi e frammenti autobiografici e tracce del passato. E in questo percorso, il regista ha sempre tenuto a mente le strategie per far sopravvivere un gruppo che si muoveva nelle direzioni più disparate.
Nacquero così spettacoli con gruppi ristretti di membri, a volte a partire dal training, o quasi sempre da materiali elaborati autonomamente dagli attori. All’Odin, gli attori sperimentavano una forma di training che, dopo alcuni anni, faceva assumere loro una posizione peculiare, il sats, con le ginocchia piegate e pronte a saltare in ogni direzione, pronte a reagire; a partire da questo, Barba avrebbe sviluppato uno dei primi principi dell’Antropologia Teatrale: l’alterazione dell’equilibrio. Gli attori lavoravano sul modo si spostarsi, di camminare e di fermarsi, in una sorta di continua danza dell’equilibrio, imparavano a fare uso della staticità delle fasi ante-movimento, eliminando la distanza tra pensiero e azione fisica. Il pensiero, nello schema di lavoro di Barba, scolpisce il tempo, diventando ritmo: esso assume così un aspetto fisico , un suo modo di muoversi e, attraverso l’espressione di questo “comportamento”, si rende tangibile nella materia e prepara l’azione visibile alla gente di teatro. Lo scopo del training è allenare il pensiero-in-vita che fluisce per salti creativi e comincia a vivere nel corso del lavoro che attore e regista condividono: il training fisico sviluppa quel nuovo comportamento in modo profondo, e «gli esercizi fisici sono sempre esercizi anche spirituali».
I ritmi di lavoro dell’Odin erano totalizzanti: la comunità teatrale, per coltivare le proprie potenzialità creative senza contaminazione, era spesso accusata di separazione autoreferenziale rispetto al resto della cittadina. Tutto questo, per Barba, era necessario affinché attraverso lo spettacolo si giungesse a una sorta di enigma da sciogliere, offerto dall’attore tramite brandelli della propria storia intimamente rievocata. Il lavoro con gli attori non era mai ripetitivo: cominciava ora dalla scelta dei costumi, ora dall’improvvisazione a partire da un tema, sperimentando vie sempre nuove alla creatività. Con il gruppo dell’Odin, Barba ha condiviso esperienza parateatrali nelle comuni agricole, ha sperimentato la produzione drammaturgica attraverso l’accordo segreto e intimo che si instaura tra attore e regista durante le improvvisazioni, l’ha concretizzata in partiture ritmiche dense di musicalità. Le performance dell’Odin hanno sempre avuto lo scopo di sprigionare l’energia di questa partitura, attraverso uno studio costante e precipuo dei principi dell’equilibrio e dell’opposizione, della sottrazione dei comportamenti corporei abituali, dell’allenamento vocale e dell’apprendimento per imitazione.
Fino agli ultimi spettacoli, Talabot e Mythos, i viaggi lontani e le tappe nelle comunità rurali hanno intensificato l’esplorazione nei temi del mito e della morte, diffondendo attraverso ogni spettacolo quel senso di rivolta culturale senza compromesso. Nel gruppo nordico, esempio di rigenerazione nella continuità, la primigenia energia virtuosistica degli attori è stata nel tempo affiancata da una certa intensità del movimento ridotto, che nella codificazione della partitura fisica si tramuta in sonorità: il ritmo, appunto. All’Odin, come a lungo fu per il teatro di Grotowski, questa rivolta culturale ha riguardato anche il pubblico, spesso limitato e composto da una cerchia di fedelissimi, chiamato a costituire parte integrante dello spazio scenico e del rituale emotivo e intellettuale in atto. E anche per gli spettatori più contemplativi, non vi era spazio per la noia: Barba spezzava i ritmi, lasciava esperire diversi livelli di realtà fisica ed emotiva, coinvolgendo senza mediazione lo spettatore, attraverso il fastidio e l’irrisione, ma anche con la commozione e una forma di estatico turbamento.
Uomo del Salento, da molti definito come “terrestre e spirituale” al contempo, Barba creava gli spettacoli seguendo un flusso naturale di perfezionamento, lavorando incessantemente sulla pulizia degli equilibri e sulla creazione di fraseggi mai didascalici, ma pregni di un’unità mente/corpo non soltanto simbolica ma anche organica e vibrante. Ciò che ha disseminato rimarrà ancora scolpito nelle pietre del Laboratorium, trasformando quello che sembra un addio in una sospensione del respiro. Nella Canoa di Carta, Barba scrive che il teatro è ciò che gli permette di «non appartenere a nessun luogo, di non essere ancorato a una sola prospettiva, di rimanere in transizione». E allora, buona transizione. Questo è soltanto un arrivederci.
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