
Lo Spazio Vuoto di Peter Brook: la (ri)costruzione di un teatro vivo
Nel 1968 veniva pubblicato Lo Spazio Vuoto, uno dei testi-cardine di Peter Brook sul teatro novecentesco; i principi enunciati sembrano acquisire nuovo vigore in un tempo sospeso come quello presente, in cui appare necessaria una riformulazione dei principi alla base dell’arte scenica. Prima di tutto occorre accettare, per dirla col Brook de La porta aperta (1993), che «il teatro è nella verità del momento presente, nell’assoluto senso di convinzione che può apparire solo quando un’unione lega interprete e pubblico». Molto spesso nella storia questo legame si è sfilacciato, arrivando in diversi casi a spezzarsi definitivamente, ma quello attuale è forse il primo momento in cui ci è data l’occasione, verrebbe da chiamarla restrizione, di fermarci; e di ragionare con più attenzione sulle parole dei maestri.
Immaginiamo il teatro come una casa e gli spettatori come un nutrito drappello di ospiti esigenti, di mariti che avrebbero preferito starsene sul divano a guardare la replica di una partita, di fanciulli che protestano perché in contemporanea c’è la diretta Facebook di Fedez che per mesi è stata un appuntamento fisso: se troveranno un arredamento pretenzioso e stuzzichini stantii non faranno che borbottare di continuo, approfittare del primo momento utile per schiacciare un pisolino e applaudire in tutta fretta per sentirsi autorizzati a svignarsela, tornare alla propria poltrona e prometterle mortificati che mai più ripeteranno l’errore di separarsi da lei.
Nel capitolo riguardante il Teatro Mortale, quello cioè più legato alla tradizione occidentale, Brook cita il caso dell’Opera di Pechino, che ha saputo rinascere dalle proprie ceneri rinunciando agli stilemi delle epoche passate. Vero è che quello occidentale è il mondo della conservazione, del restauro, ma il teatro, in quanto materia viva, deve poter andare oltre i belletti e anzi trovare il coraggio di bruciarli.
Quella dello spazio vuoto di Peter Brook, del teatro dal palcoscenico spoglio, da metafora si trasforma in specchio del nostro tempo, e Amleto ci vedrebbe probabilmente un’ occasione irripetibile per chiedersi se esistere oppure no.
«Un uomo lo attraversa lo spazio e un altro lo osserva: è sufficiente questo a dare inizio a un’azione teatrale»: per Brook, come per Grotowski, è da qui che bisogna partire, dall’istante di un incontro. Ma mentre molti ragionano sul “come”, si chiedono quali mezzi possano rendere di nuovo possibile questo incontro, pochi sembrano interrogarsi sul “cosa”: quali principi, quali forze dovranno abitare i teatri nel momento della riapertura? Ci sarà da ricostruire, e non sarà facile, ma soprattutto sarà possibile, dalle ceneri di questo tempo, far fiorire un pubblico nuovo, che non vorrà più saperne di starsene a casa, e con quello non ci si potrà permettere errori.
Quale sembianza si manifesterà alla fine di questo lungo processo di erosione? Cosa dovrebbe accogliere il teatro vuoto spogliato di ogni fronzolo?
Un processo drammaturgico.
Troppo spesso abbiamo visto palcoscenici adibiti a spazi per conferenze, letture di romanzi, poemi, a discapito di solide strutture drammaturgiche: per Peter Brook la parola scenica «esiste o non esiste soltanto in rapporto alle tensioni che è in grado di creare all’interno di determinate condizioni», intendendo per drammaturgia, naturalmente, non tanto, o non solo, l’insieme delle battute pronunciate dagli attori, quanto la costruzione di dinamiche narrative ed emotive. Il pubblico ha fame di storie, ma non possiamo raccontargli sempre le stesse senza mai cambiare tono.
Nel capitolo sul Teatro Sacro, quello dell’evocazione, della messa in scena di qualcosa che non è visibile agli occhi, Peter Brook racconta di avere assistito a un allestimento di Delitto e castigo in una piccola mansarda, con un attore-narratore che col solo strumento della sua voce, come un nonno con i nipoti, era in grado di evocare l’universo narrativo di Dostoevskij, finché una porta cominciava a scricchiolare, Raskol’nikov faceva la sua comparsa e il dramma prendeva vita senza che mai il pubblico, bramoso di quel “rapimento”, perdesse di vista il fatto di trovarsi con lui stipato in una stanza.
Nello stesso capitolo Brook ricorda un’esperienza vissuta ad Amburgo nel 1946: sul palco di un locale notturno, due clown sgangherati seduti su una nuvola colorata si dirigono dalla Regina del Cielo e, nel pensare a cosa chiederle, innescano un elenco infinito di gustose pietanze, mandando in visibilio il giovane pubblico, per poi, al termine dell’elenco, sprofondare insieme agli spettatori in quel silenzio che è solo del teatro, di immagine evocata che risponde a un reale bisogno. Operazioni del genere diventano quindi ancora più necessarie in un’epoca di crisi.
Di cosa avrà fame il pubblico quando sarà libero di esondare? Di sentire i piedi che si staccano dalla terra. Di vivere esperienze che trascendano la dimensione sensoriale. E allora qualcuno andrà a teatro e qualcun altro a messa, e bisognerà essere pronti. Se la chiesa ha le campane e la croce, il teatro userà il palo e i tamburi che nei riti vudù haitiani consentono al dio di incarnarsi per incontrare tutti i presenti e comunicare loro quel messaggio tanto urgente da costringerlo a scapicollarsi fuori dalle divine sfere. Quale sarà questo messaggio?
Per Brook «l’unica possibilità è andare a rileggere le affermazioni di Artaud, Mejerchol’d, Stanislavkij, Grotowski e Brecht e confrontarle con il contesto specifico in cui lavoriamo. Di che cosa abbiamo bisogno? Di liberazione? Da che cosa?»
Dalla morte, verrebbe da rispondergli, dal silenzio e dalla parole, dall’immagine e dal buio. Dall’assenza.
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