
Jim Jarmusch: elogio al cinema inutile
Un tipo eccentrico, in perenne disaccordo con l’ambiente; un pittore della quotidianità, un regista per cui è (quasi) impossibile non perdere la testa. Eppure il suo ultimo lavoro (I morti non muoiono, 2019) si presenta con un rating IMDB di 5.5 su 10. Jim Jarmusch affascina, delude, polarizza. È il 1980 quando il regista nato ad Akron (in Ohio), poi accasatosi nella scena artistica newyorchese, inizia a popolare i cinema di tassisti notturni, poeti, evasi a piede libero e sicari prezzolati sotto copertura. I suoi protagonisti ballano, trangugiano caffè, conversano del più e del meno. Nei film di Jarmusch l’azione è perlopiù sospesa, autotelica, apparentemente casuale. Lasciata in un angolo la fiaba di Propp con le relative funzioni, l’universo jarmuschiano assume le caratteristiche di un limbo narrativo: intertestualità, metatestualità, assurdo. Le storie di quotidianità pedestri e aneroiche potrebbero andare avanti all’infinito, o concludersi in modo altamente imprevedibile.
Permanent Vacation (1980)
Ragazzo di provincia convertitosi alla metropoli, Jarmusch arriva al cinema lentamente, passando per studi di giornalismo e di lettere. È a Parigi, durante uno scambio universitario, che Jim si accosta “veramente” alla Settima Arte. La Cinémathèque Française della Ville Lumière è gestita da Henri Langlois, mentore dei registi della Nouvelle Vague e programmatore eclettico. I suoi cartelloni mettono i maestri giapponesi spalla-spalla con cineasti indiani ed europei, dando vita a una storia “dislocata” dell’immagine in movimento. Come un puzzle, Jarmusch incamera, accosta, sintetizza; quello che ne esce è una visione plurale, relativa. Una superficialità profonda: quella che porta i personaggi ad agire con allucinata spontaneità e che interroga lo spettatore, obbligandol* a deporre le categorie di pre-comprensione acquisite dalla visione di un certo numero di film. Per Jarmusch non è automatico che, se un fucile entra in scena all’inizio, prima o poi sparerà (quell’anticipazione narrativa nota come Pistola di Čechov); non è detto che, come in Paterson (2016), un cane debba essere rapito se qualcuno fa notare al padrone che potrebbe essere rapito.
Tratto autoriale ricorrente, è nella prima produzione di Jarmusch che questa infinita possibilità combinatoria dispiega maggiormente il suo potenziale di racconto. Inseriti canonicamente – insieme alle opere di David Lynch e Gus Van Sant , per esempio – nella Second Wave degli indie americani, i film da Permanent Vacation (1980) a Taxisti di notte (Night on Earth, 1991) ospitano protagonisti liminali, anticonformisti, che si muovono nel mondo culturalmente organizzato come oddball un po’ naive, schegge a piede libero con nessuna volontà di abusare della propria apparente assenza di legami. Così è per Allie in Permanent Vacation, flâneur newyorchese tramutatosi in perdigiorno sfaccendato; così è per Roberto Benigni uccel di galera in Daunbailò (Down By Law, 1986) che, finito nelle mani della giustizia statunitense, evade insieme ai compagni di cella Tom Waits e John Lurie a suon di filastrocche e girotondi.
Così sono le sequenze lente e pedestri, ma stilisticamente ricercate, di Stranger Than Paradise (1984), storie di ragazzi tra noiosa ruotine e desiderio di evasione e realizzazione personale. Ritmi lenti e dissezione dell’esperienza umana portano la prima produzione di Jarmusch agli antipodi rispetto al cinema commerciale hollywoodiano, che nel frattempo scopriva il blockbuster moderno con Lo squalo (S. Spielberg, 1975), Ritorno al futuro (R. Zemeckis, 1985), Die Hard (J. McTiernan, 1988) e tanti altri. Ma il rifiuto della convenzionalità narrativa si spinge, in Jarmusch, ancora oltre.
Broken Flowers (2005)
La seconda fase creativa del regista, da Dead Man (1995) a oggi, lo vede fornire la propria versione di una serie di generi cinematografici. Western (Dead Man), film di samurai (Ghost Dog, 1999) e di agenti segreti (The Limits of Control, 2009), di vampiri (Solo gli amanti sopravvivono, 2013) e di zombie (I morti non muoiono). Jarmusch riprende gli elementi della tradizione – gli omaggi diretti a La notte dei morti viventi (1968) di Geroge A. Romero, capostipite dello zombie contemporaneo, per I morti non muoiono; Dracula (1897) di Bram Stoker per Solo gli amanti sopravvivono, per esempio – e li inserisce in trame le cui logiche narrative mettono in discussione il concetto stesso di “genere”.
Categorie di precomprensione sulla base del “già visto”, i generi sono meccanismi di riconoscimento e categorizzazione; una lettura automatica della realtà, nello specifico quella artistica. Per levare l’anestesia (etimologicamente: “mancanza di percezione”) dai consumatori di blockbuster, Jarmusch propone non tanto storie di genere quanto antologie delle componenti dei generi stessi. Allora ecco che i vampiri Tilda Swinton e Tom Hiddleston si procurano sangue sul mercato nero pur di non mietere vittime umane, e che il Dongiovanni Bill Murray, in Broken Flowers (2005), si imbarca in un viaggio attraverso gli Stati Uniti alla ricerca di un’agnizione chimerica: il ricongiungimento con un figlio segreto, avuto anni prima con una delle sue amanti. Ma i nomi parlano, e forse non è un caso che Don, il personaggio di Murray, viva proprio in Circle Drive…
Solo gli amanti sopravvivono (2013))
Per descrivere l’esperienza di visione di un film di genere à la Jarmusch è stimolante interpellare la nozione heideggeriana di Langweile (“noia”). Per il filosofo tedesco la noia è una Stimmung (“stato d’animo”), o meglio, una Grundstimmung (“stato d’animo fondamentale”) dacché, argomenta, la noia, soprattutto se “profonda” ovvero accettata senza riserve, permettere la nascita del pensiero filosofico attraverso la rinegoziazione del giudizio sulla propria Geworfenheit, l’essere-nel-mondo. Stato d’animo ateleologico per definizione, la noia mette in discussione i rapporti tra “terra” (la cosa) e “mondo” (la cultura) che caratterizzano le azioni teleologiche, orientate a un fine. Nei film di Jarmusch, la libera narrazione è l’unico fine: obiettivo in-finito e autosufficiente. Se ci aspettiamo di goderci un western alla John Ford, Dead Man potrebbe gettarci nella noia. Ma se la noia è curiosa accettazione del diverso, allora penseremo cose mai pensate. Allora, come direbbe Heidegger, filosoferemo.
Tra lenta naïveté indie e generi rimodulati, quello di Jarmusch è dunque stato, fin qui, un cinema inutile, che pone una sfida gentile allo spettatore, invitandol* a considerare una possibilità in più; ad allargare il proprio spettro del possibile. Mille ancora di questi film, Jim. E che la strada possa essere luminosa.
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