
Il cattivo tenente di Abel Ferrara – La persona peggiore del mondo
“Lasciate ogni speranza, voi che entrate”: ai titoli di testa de Il cattivo tenente (Bad Lieutenant, 1992) di Abel Ferrara manca questo cartello, ma chiunque si sia mai avventurato nel girone infernale privato che è questo film, sa che sarebbe un avvertimento piuttosto utile.
Quello che infatti si vede nei 96 minuti successivi è lo spettacolo d’arte varia di un uomo ridotto al grado zero della morale, di quelli che il Travis Bickle di Taxi Driver avrebbe considerato feccia da spazzare via dalle strade, e che l’Al Pacino di Serpico avrebbe denunciato al primo incontro tra colleghi. Già, perché – dettaglio non trascurabile – quest’uomo rivoltante è come da titolo anche un agente di polizia, anzi un tenente di lungo corso, di quelli a cui gli agenti semplici fanno rispettosamente strada quando arrivano sui luoghi del delitto.
Solo tre persone potevano dare credibilità, spessore e veridicità ad un personaggio del genere: Abel Ferrara, Zoë Lund e Harvey Keitel, rispettivamente regista, (co-)sceneggiatrice e attore protagonista. Nel 1992, Ferrara aveva appena messo il naso fuori dalle produzioni di serie C con l’apprezzato King of New York (1990): dalla sua aveva una credibilità da duro e un gusto provocatorio, aiutati da una sobrietà pressoché inesistente (la sua intervista pochi anni dopo da Conan O’ Brien è eloquente in merito).
Dal canto suo, Harvey Keitel trovò forse il ruolo della vita, che non solo mise fine a decenni di ruoli da non protagonista, ma diede inizio a una sfilza di parti memorabili che lo vendicarono ampiamente come uno degli attori-simbolo degli anni Novanta, da Le iene a Lezioni di piano, da Pulp Fiction a Smoke. Ma a che prezzo?

La prima volta che vediamo Keitel, che per tutto il film è solo “il tenente”, è impegnato ad accompagnare nervoso i due figli alle elementari, e dopo averli insultati per il ritardo («Siete uomini o topi?» è il tenore della conversazione), lo vediamo sniffare polvere bianca quando non è ancora uscito dal vialetto della scuola.
Il secondo choc è scoprire che è anche un agente di polizia, benché sui generis: rivende la droga sequestrata dai colleghi ai suoi spacciatori di fiducia, passa le sue serate tra vodka, eroina e prostitute, gestisce un giro di scommesse clandestine sul baseball, spara all’autoradio se gli dà notizie poco gradevoli e, in una delle scene più repellenti della storia del cinema, molesta sessualmente due ragazze minacciandole di fargli togliere la patente se non collaborano.
Quando viene a sapere che una giovane suora è stata violentata e seviziata (un fatto realmente accaduto a New York anni prima), la sua reazione davanti ai colleghi esterrefatti è: «Ogni giorno ne violentano una, ora mettono in palio 50mila dollari di ricompensa solo perché questa era vestita da pinguino?». Questo è il tipo di personaggio che Harvey Keitel scelse di interpretare per rilanciare la sua carriera.

Ma il bello è che se un ruolo del genere fosse stato affidato a superstar quali Pacino o De Niro, che dopo tanti film in fondo sappiamo essere dei buoni, non ci avrebbe fatto abbastanza paura, non ci avremmo creduto abbastanza, mentre il solo sguardo di Keitel è capace di farci sentire di nuovo bambini davanti a un genitore che sappia quali guai abbiamo combinato.
Non è però solo una questione di attitudine da duro: vent’anni dopo Mean Streets di Scorsese (che in italiano aveva il sottotitolo perfetto anche per questo film di Domenica in chiesa, lunedì all’inferno), Keitel è in grado di trovare in quest’uomo senza più dignità un barlume di dubbio, di pentimento, forse di redenzione.
Da buon italoamericano amante di Pasolini, Ferrara tenta il salto carpiato nel superare Scorsese in scorsesità, tirando in ballo temi e ambienti a lui ben noti: cattolicesimo, violenza, senso di colpa, malavita, squallore urbano e morale, riscatto, autopunizione. Qualcosa infatti cambia quando vediamo per la prima volta il tenente turbato: la suora violentata non vuole fare i nomi degli assalitori, pur conoscendoli, e in un impeto di santità dichiara che «non incontrerà più due ragazzi la cui preghiera sia così ardente, così chiara, così dolorosa». A quel punto, così come di fronte a diverse scene del film, si può reagire sconvolti da tanta purezza, oppure ridendo, pensando a una battuta di cattivo gusto.

Prendere o lasciare: il cinema di Ferrara è notoriamente poco accondiscendente ed elegante, e se si tratta di mostrare un tenente in preda a una crisi morale, tanto vale che gli appaia un Cristo a grandezza naturale in chiesa e che lui lo insulti con i toni più blasfemi prima di urlargli disperato: «Dov’eri andato? Dove c**zo eri andato?».
Sì, perché il lieutenant potrebbe benissimo essere la versione invecchiata del Charlie di Mean Streets che, scelta la divisa e messa su famiglia, si è a un certo punto trovato a confrontarsi con un vuoto senza fine, che è poi il vero mistero che rende questo film qualcosa di più di una barzelletta su “dove si spingerà questa volta”. Quando Keitel, fisicatissimo in quello che è probabilmente il nudo maschile più famoso del cinema indie, barcolla e piange ubriaco, ciò che ci chiediamo è: cosa lo ha portato a questo? Qual è la sua storia? Come ha fatto tutto ad andare così a rotoli nel suo passato? Queste risposte il tenente non le dà: possiamo accontentarci soltanto di vederlo compiere un inatteso e tardivo gesto di pietà, come se salvando gli altri potesse salvare anche sè stesso.
Per decenni Il cattivo tenente è stato un piccolo blockbuster del cinema più indipendente e provocatorio, uno di quei gloriosi film sporchi e pericolosi che apparivano nelle salette vietate dei videonoleggi e diventavano piccole leggende metropolitane per cinefili in erba. Anche a decenni di distanza, e anche dopo decenni di film che non hanno lesinato violenza ed eccessi, il suo mix di estetica dello squallore, trasgressione, toni da serie B e domande profonde su colpa e redenzione, lo rende ancora sporco e pericoloso come allora.
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