
Il metodo Stanislavskij, manuale minimo dell’attore-scrittore
Non c’è nessun metodo, c’è la natura.
Così Konstantin Stanislavskij, inanellando i principi basilari dell’arte attoriale fin lì figlia soltanto dell’istinto e della tradizione, chiuse il cerchio che lui stesso aveva tracciato.
Le avanguardie teatrali del secondo Novecento hanno spesso relegato il celebre “sistema” a feticcio da smontare o padre da assassinare, mentre il cinema, soprattutto quello hollywoodiano, vi ha attinto in maniera quasi ossessiva (basti pensare al De Niro di Taxi driver, che per dare credibilità al suo personaggio svolse per un mese, e con regolare licenza, il lavoro di tassista a New York). Nonostante ciò, i santoni del teatro contemporaneo continuano a bollare il metodo Stanislavskij come obsoleto e con ogni forza ne respingono il (presunto) naturalismo in nome di una ricerca basata sul corpo dell’attore, più che sulla sua psicologia.

Stanislavskij in realtà per primo rifuggiva l’imitazione piatta della natura, ma in essa stessa cercava le strade per arrivare a trascenderla; insomma, la verità artistica come frutto esclusivo di un parto naturale. I principi da lui enunciati, “microcompiti” e “supercompito”, “magico se”, “circostanze date”, “sottotesto”, “memoria emotiva”, oltre all’indubbio merito di aver dato al teatro delle basi scientifiche che lo hanno reso materia di studio e non più estemporanea manifestazione di talenti, tornano sorprendentemente utili in un’epoca come la nostra in cui l’arte tout court è assoggettata ai capricci del relativismo.

Pescando a caso nello sconfinato repertorio shakespeariano, tanto caro al fondatore del Teatro d’arte di Mosca, possiamo prendere in esame la terza scena del quarto atto di Amleto, quella in cui il re Claudio manda a chiamare il figliastro e gli comunica la decisione di spedirlo in Inghilterra: l’attore che interpreta il sovrano usurpatore dovrà tenere conto di tutte le ansie pregresse legate alla possibilità di essere scoperto e alla morte di Polonio, l’uomo a lui più vicino (“circostanze date”), immaginare costantemente che proprio lui potrebbe essere il prossimo (“magico se”), dissimulare la propria paura davanti ai cortigiani (“microcompito”), imporre la propria volontà (“supercompito”), convincere Amleto che la decisione dell’esilio è presa per il suo bene (“sottotesto”), cercare nel proprio vissuto un momento in cui con ogni forza ha provato a giustificare un’ingiustizia commessa (“memoria emotiva”). Questi elementi costituiscono la reale azione della scena, ciò che etimologicamente definisce il lavoro dell’attore e al contempo ne fa un artista che crea.
Confrontarsi, anche criticamente, con le basi metodologiche è poi dovere precipuo di ogni sperimentazione, ma davanti all’esigenza di interpretare o addirittura concepire un nuovo personaggio come può non risultare florido l’esempio del Nazvanov de Il lavoro dell’attore su sé stesso? Il protagonista del celebre diario-accademia di Stanislavskij ha il compito di creare un personaggio finto senza perdere di vista il proprio “sé interiore”. L’atto creativo di Nazvanov parte da una vecchia finanziera verdognola trovata nel magazzino della scuola: l’allievo scorge in quell’abito consunto la chiave per penetrare un aspetto fin lì latente della propria personalità. All’inizio la sua visione non è ben definita, ma una notte si ritrova a sfregarsi le mani in un modo per lui inconsueto, con l’assoluta consapevolezza che si tratta di mani piccole e sudate. Il giorno del saggio il ragazzo non è ancora venuto a capo di nulla. Sconfitto, decide di non presentarsi in scena e comincia a struccarsi usando una pomata verdastra. La sostanza diventa un catalizzatore, perché Nazvanov si ritrova il volto dello stesso colore della finanziera e capisce di dover spalmare la pomata dappertutto, anche nei capelli, ma non nelle palme delle mani.

Quando si presenta in scena nessuno riesce a riconoscerlo, e la nuova creatura si presenta come l’inquilino ipercritico di Nazvanov, viscido e muffo come l’influsso che ha su di lui, e nel rispondere agli stimoli esterni rivela una vena inesauribile, arrivando addirittura a battibeccare col tanto temuto maestro assecondando una serie istinti che fin lì giacevano sul fondo della sua coscienza.
In questo senso la lezione di Stanislavskij e i principi dell’arte attoriale si applicano, oltre che alla recitazione e, naturalmente, alla regia, anche alla più creativa delle arti sceniche, quella del drammaturgo. Ancora troppo spesso assistiamo a spettacoli in cui gli autori profondono il loro massimo sforzo nella ricerca linguistica e nella costruzione di dialoghi brillanti, trascurando la concatenazione logica delle azioni che vi stanno alla base o le profonde motivazioni dei personaggi.

Ѐ questo probabilmente il più grande merito del maestro russo, che, novello Aristotele della scena, ha fondato delle categorie strutturali per una scienza umanistica come il teatro. Osservazione del mondo naturale, autoanalisi, disponibilità ad accogliere gli stimoli esterni: l’atto creativo, tanto dell’attore quanto dello scrittore, paga dazio a questi principi, che fanno del metodo Stanislavskij una vera e propria scuola elementale.
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