
Cirillo allo specchio con Jane Austen – Orgoglio e pregiudizio di un grande classico
Arturo Cirillo allo specchio con Jane Austen, rischiando la trappola dell'”orgoglio” e del “pregiudizio” dell’adattamento di un grande classico. La sua regia mischia la sobrietà ottocentesca al barocco partenopeo, ponendosi in una zona grigia rischiosa per un’opera così nota. Lo spettacolo resta però un tentativo energico di portare al grande pubblico un pezzo importante della letteratura occidentale, e di farlo con comicità e brio.
Che poi, chi siamo noi per definire – nel variopinto pantheon delle arti – un “classico”?
A pensarci su, il classico è quel prodotto – artistico, culinario, comportamentale – in cui inciampiamo di continuo, provando ad aggirarlo finché in una delle sue innumerevoli prolusioni transmediali non ci raggiunge. Lì dove non arriva Mondadori, arriva Netflix, oppure Arturo Cirillo.
Affrontare i classici è sempre gettarsi a pieni polmoni nella tela del ragno, dove più ti dimeni per sfuggire alle conoscenze – spesso nella forma di pregiudizio, più ne resti intrappolato. Chi di noi, in fondo, pur non avendo letto le parole di Jane Austen, non si aspetta qualcosa di specifico dall’adattamento di un classico come Orgoglio e Pregiudizio? La storia, spesso fraintesa e mediocrizzata, potrebbe azzardatamente essere riassunta così: tra i due esiste un amore talmente puro da spingersi all’autocensura e al suicidio, ipotizzando di soccombere in ogni caso alla galassia circostante, abitata in prevalenza da meschine figure mosse da considerazioni di tipo utilitaristico. Ciò che ho scritto non restituisce neanche un frammento della complessità del romanzo classico di Austen, che si muove sottilmente tra l’individuale e il sociale (siamo tentati di dire tra struttura e sovrastruttura), e che non incappa mai nell’ingenuità di dissociare, come fosse un automatismo del ruolo in società, il calcolo dell’interesse e la pulsione di desiderio.

Considerato che praticamente Elizabeth Bennet è a fasi alterne eroina femminista e deprecabile esempio di donnetta che alla fin fine si sposa, e che (non mentite!) avete condiviso anche voi qualche meme su Mr. Darcy, Orgoglio e Pregiudizio è uno di quei titoli da sala piena della domenica pomeriggio. Però è anche uno di quei titoli per cui gli spettatori non hanno una mente vergine, e anzi, sono radicali nelle aspettative: vogliono vedere esattamente quello che hanno immaginato o, al polo estremo, il ribaltamento eretico di quanto avevano pensato. Qualsiasi zona di grigio lascia in qualche misura insoddisfatti e viene dimenticata presto. L’adattamento di Cirillo si colloca esattamente in questo spazio medio di oscillazione del pendolo. Si pesca qualcosa dal grande classico (praticamente la linea narrativa principale) e si prova a non rimanere invischiati tra la notorietà e il brio a tutti i costi.

Nella versione di Antonio Piccolo, che per ovvie ragioni taglia alcuni personaggi, si perdono il coro polifonico delle sorelle Bennet e il personaggio collettivo della sala da ballo, entrambi agenti interlocutori essenziali. Allo stesso modo sembra che la selezione degli eventi e dei dialoghi, e in particolare quelli che dovrebbero costruire e innervare lo sviluppo intricato del sentimento nei due giovani innamorati, subisca delle cesure nette e conservi delle lacune che impediscono allo spettatore – sempre supposto come ignaro – di comprendere le motivazioni che inducono il personaggio ad agire. In questo romanzo, in cui ci si dovrebbe innamorare danzando e in cui ci si può conoscere solo conversando, in mancanza dell’una e dell’altra attività persiste un vuoto di volontà latente, per cui non si afferra mai in pieno cosa – Stanislavskij insegna – voglia il personaggio.

Tuttavia, se è ammesso che il personaggio non riconosca nel corso di tutta la pièce i propri desideri genuini – Platonov è l’eponimo di questi traballanti vagheggiamenti – non è ammesso che non lo sappia l’attore che deve interpretare il personaggio, a costo di sovrapporvi le proprie intenzioni e passioni. Invece, il risultato di questo forzoso equilibrismo tra intrattenimento – complice tanta “musica leggera” – e aderenza alla tradizione, è una poco convincente commedia dai toni barocchi e contraddittori.
Pesa certamente l’esperienza di Cirillo, avvezzo all’adattamento dei grandi classici come Shakespeare, Molière e Pirandello, ma anche intriso di un gusto che gli consente egregie mise en espace di autori come Annibale Ruccello ed Eduardo Scarpetta. L’ibridazione tra la leggiadria tagliente dei dialoghi del testo e le singhiozzate inflessioni dialettali, l’aritmia tra la generosità comunicativa dei non detti e l’esibizione scrosciante dei gesti, causano irrimediabili scivoloni kitsch durante lo spettacolo. Il sapore del folklore napoletano riveste di rococò il mobilio e persino i costumi, che però mantengono la rigidità del taglio imperiale della Londra di inizio Ottocento; gli spazi sono angusti perché la luce è avara oppure contrastata dalla seppur buona intuizione degli specchi-pannello, faticosamente mossi e incapaci di definire con precisione i riquadri dell’azione, causando una dispersione centrifuga dell’attenzione.

La costruzione dei personaggi risente, probabilmente, del doppio ruolo di Cirillo come attore e regista. Il ritmo dettato dai suoi Mr. Bennet e Lady Catherine de Bourgh si impone anche sulla vitalità degli altri attori, fino a obbligarli a sopperire a una regia scarna con esagerazioni interpretative. Quando non finiscono tutti su una stessa riga in proscenio, gli attori sono collocati dietro qualche specchio in attesa della battuta. Mentre Cirillo riesce a governare questi eccessi della gesticulatio, complice anche l’astuzia dell’en travesti, i comportamenti degli altri personaggi sfuggono alla regola della disciplina del gesto, anche quando questo è mosso da intenti turpi o “incessabili agitazioni” (alla maniera di Giovan Battista Andreini).
In compenso, resta lodevole il tentativo di portare un grande classico ottocentesco al grande pubblico, e rimangono apprezzabili l’ilarità dello spettacolo e l’energia coesa della compagnia. Particolarmente degne di nota le interpretazioni di Giulia Trippetta, convincente sia nei panni di Charlotte e di Caroline Bingley, tanto per ironia pacata che per ostentazione del privilegio; notevole soprattutto la performance di Francesco Petruzzelli, un signor Darcy infinitamente più dolce di quanto siamo abituati a vederlo e pensarlo, ma avvezzo alla misura e all’intensità tanto dell’orgoglio quanto del pregiudizio che, dovremmo ormai averlo capito, si manifesta finché non si sa, o finché non si vede, qualcosa.

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