
A Woman Under the Influence – Il volto e il respiro nel cinema di John Cassavetes
John Cassavetes è una delle figure più enigmatiche del cinema statunitense del secondo dopoguerra. Il suo ardito approccio alla settima arte ha scomodato notevolmente il mercato cinematografico di quegli anni – così come molti lavori degli affiliati alla così detta New York School e all’avanguardia di fine anni Sessanta –, ma soprattutto ha nobilitato il cinema indipendente e sperimentale attraverso forme inedite alla cinematografia nordamericana.
La rivoluzione di Cassavetes parte però dal teatro e, in particolare, dal lavoro sull’attore: il regista rigetta il metodo Strasberg dell’Actor Studio – estremamente popolare all’epoca – ritenendolo “una forma di terapia più che una forma di recitazione”; la sua predilezione per l’improvvisazione e per un lavoro corporeo incentrato sull’esuberanza e l’esasperazione della “maschera” del personaggio lo hanno condotto all’apertura di un workshop in cui insegnare ad aspiranti attori le proprie rivisitazione sulla performance.

L’approdo alla regia è ugualmente innovativo e interessante: la macchina da presa si sofferma sugli “spazi vuoti” presenti nella storia, lasciando i personaggi più liberi di esprimere desideri nascosti senza soffrire le zavorre produttive imposte da un racconto preconfezionato. Alcuni elementi ricorrenti nel suo cinema come la predilezione per l’improvvisazione, la povertà dei mezzi realizzativi e l’estetica pseudo-documentaristica hanno conferito a Cassavetes il ruolo di padre della “Nouvelle Vague” statunitense.
Una moglie (A Woman Under the Influence, 1974) rappresenta la summa del cinema cassavetesiano. Da un lato introduce in modo piuttosto esplicito ogni sfumatura della poetica del regista, dall’altro contiene il frutto di un meticoloso lavoro incentrato sulla coesistenza di due narrazioni distinte: la prima, quella più lineare e oggettiva, riguarda la vita di una famiglia della classe medio/bassa statunitense, la seconda una delicata esplorazione dell’interiorità di Mabel (Gena Rowlands), attraverso il suo sguardo che scandisce ogni piccolo evento della vicenda filtrando la narrazione attraverso i suoi occhi. E’ utile a questo punto chiedersi in quale modo John Cassavetes sia riuscito a sovrapporre queste due sensibilità narrative – apparentemente disunite – conferendo al racconto una straordinaria fluidità. La risposta può essere individuata in due elementi cardini del suo cinema: la centralità del volto e del respiro.

Per il regista newyorkese il volto è un amplificatore del pathos narrativo: già a partire dai suoi film precedenti – tra cui Volti (Faces, 1968) dal titolo piuttosto esemplificativo – i lineamenti, la fisionomia e la mimica facciale sono parte integrante del mosaico sentimentale che va costruirsi sullo schermo. Nulla è lasciato al caso: il viso nel cinema di Cassavetes possiede un’aura totalizzante che avvolge l’opera e la sovrasta; i volti dei due protagonisti potrebbero risolvere esaustivamente la narrazione senza dire una parola. Cassavetes, infatti, delega al volto il compito di “trasportare” le differenze sociali e personali: il viso di Nick (Peter Falk) – stanco, grezzo e squadrato – porta con sé la fatica quotidiana di un mestiere usurante e difficile; il volto di Mabel invece è angelico, materno e, allo stesso tempo, fragile e nevrotico. A differenza di Nick, il suo volto non porta con sé la fatica del quotidiano ma l’atavico peso del ruolo di moglie e madre, la sofferenza e il risentimento imposti dal suo ruolo sociale nella middle class statunitense.
Il secondo elemento non riguarda la gestione del profilmico, ma concerne il ritmo del montaggio e la scelta del punto macchina. Il respiro, per l’appunto, è legato essenzialmente alla sensibilità mostrativa del regista di mettere in scena le falle del rapporto dei coniugi piuttosto che il definitivo sgretolarsi. La peculiarità del cinema di Cassavetes risiede proprio nell’abbondanza del respiro fra un’inquadratura e quella successiva. Ogni movimento, espressione del volto o frase pronunciata è sempre differito, quasi come se la cinepresa fosse completamente disinteressata al procedere della narrazione lineare per permettere alle sfumature di germogliare tra le crepe della vicenda: dunque è il caso degli sguardi Nick verso la moglie che spesso coincidono con degli sguardi fissi nel vuoto; così come i tic nervosi di Mabel, sempre più evidenti e incessanti che scandiscono la sua quotidianità.
Ovviamente le difficili condizioni della donna sono contrapposte al respiro degli “ordinari”, quindi alla presunta normalità delle persone che ruotano attorno alla vita dei coniugi: un caso esemplare è la sequenza della festa di compleanno organizzata da Mabel dove il padre di una bambina è disturbato dal comportamento della donna e abbandona la casa non prima di aver fatto a cazzotti con Nick. La cinepresa di Cassavetes non risparmia l’ordinario quotidiano, indugiando su alcune movenze ed espressioni microscopiche che però forniscono senso all’intero quadro performativo.

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