
Quando nascono i visual culture studies: gli anni Novanta tra missili intelligenti e Lady Diana
Questo articolo fa parte della sezione Lessico della Cultura visuale, dedicata all’approfondimento di alcuni concetti chiave dei visual culture studies: in questo secondo contributo ricostruiamo il contesto in cui, negli anni Novanta, si afferma il campo di ricerca degli studi di cultura visuale.
Siamo alla metà degli anni Novanta e nel mondo accademico angloamericano si fa strada con forza un nuovo campo di ricerca: una disciplina, o meglio una strategia, una «struttura interpretativa fluida» – con le parole di Nicholas Mirzoeff nella sua Introduzione alla Cultura visuale – formatasi in risposta alle profonde trasformazioni in atto nell’iconosfera, ovvero la sfera costituita dall’insieme delle immagini che circolano all’interno di un determinato contesto culturale, dai dispositivi che producono, elaborano, archiviano e diffondono tali immagini come anche dagli usi sociali, politici e culturali che di esse viene fatto.
Trasformazioni che fanno tutte capo a una netta amplificazione della portata del visuale all’interno del panorama percettivo occidentale e che – nonostante fossero in atto già da tempo (si rimanda, per l’origine del concetto di Cultura visuale, al primo articolo di questa rubrica) – portano sul finire del secolo a una situazione in cui «le immagini visive, e la visualizzazione di cose che non sono necessariamente visive, hanno subito un’accelerazione così drastica che la circolazione globale dell’immagine è diventata fine a sé stessa» (Mirzoeff, 2002).
Sono anni in cui dalla nascita del Web e dalla diffusione delle nuove tecnologie digitali consegue un rapido e vertiginoso aumento del numero delle immagini in circolazione e in cui un pubblico sempre più vasto ha la possibilità di accedere a software e dispositivi di produzione, elaborazione, archiviazione e condivisione di immagini, in virtù anche della progressiva convergenza di media prima distinti (macchina fotografica, radio, telefono…) verso singoli dispositivi multiuso.
All’interno di questo crescente flusso iconico nascono nuove modalità di esperienze visive – il visitatore dei siti internet spesso può accedere a degli spazi soltanto se il cursore passa su un punto specifico, i collegamenti possono apparire e sparire, in uno spazio che non è più trasparente come nel modello prospettico, ma denso e mobile – e compaiono immagini prima sconosciute, invisibili – dalle fotografie satellitari alle immagini ecografiche della diagnostica medica –, capaci di rivoluzionare l’immaginario collettivo rispetto al corpo umano, alla materia, al mondo.

Immagini dal forte impatto politico, culturale e sociale, anche, diffuse in diretta da media sempre più globali: a partire da quelle della caduta del muro di Berlino nel ‘89 e del bombardamento di Baghdad dell’anno successivo fino a quelle dell’evento che – a detta di Mirzoeff – ha segnato la nascita di una visual culture globale: i funerali di Lady Diana, trasmessi nel ‘97 in diretta dalle televisioni di tutto il mondo e seguiti da oltre due miliardi di persone; arrivando infine naturalmente alle visibilissime immagini dell’attacco al World Trade Center del 2001.
«La gente, a qualsiasi livello e di qualsiasi natura, ha cominciato ben più che in passato a usare le immagini come strumenti per operare nel mondo e modificarlo, come armi con cui combattere e contro cui combattere. […] Dai marchi multinazionali ai videoclip musicali, dalle trasmissioni neotelevisive agli annunci pubblicitari, dalle fotografie di reportage ai filmini turistici, dalle testimonianze di stragi ed eccidi ai video dei terroristi»
Ed è importante sottolineare come questi cambiamenti siano frutto tanto degli sviluppi tecnologici, quanto della volontà del consumatore: «non c’è una ragione intrinseca per cui i computer debbano servirsi prevalentemente di un’interfaccia grafica, se non quella che gli utenti oggigiorno preferiscono così».
In altre parole, la cultura visuale non dipende dalle immagini in sé, ma dalla tendenza comune a raffigurare o visualizzare l’esistenza e, sebbene questa visualizzazione fosse diffusa durante tutta l’epoca moderna, a questo punto diventa quasi obbligatoria: la sempre più capillare presenza di schermi e di videocamere di sorveglianza in spazi pubblici e privati ne è un ottimo esempio, all’interno di un regime in cui costantemente si vede e si è visti.

«La nostra vita ha luogo sullo schermo», scrive ancora Mirzoeff, «l’esperienza umana è adesso più visuale e visualizzata di quanto lo sia mai stata nel passato» e, in questo turbinio di immagini, il vedere «non è solo una parte della vita quotidiana, è la vita quotidiana stessa». Questa visualizzazione della quotidianità non determina però necessariamente – inutile dirlo – la comprensione di ciò che vediamo: basti pensare alla stessa Cnn che ci ha mostrato come una popolazione possa assistere alla distruzione di massa di una nazione araba «come se fosse niente di più che uno spettacolare melodramma televisivo, arricchito da una narrazione elementare che vede il bene trionfare sul male, e da una rapida perdita della memoria pubblica», ricorda W. J. Thomas Mitchell nel suo Pictorial Turn.
Si ricordi poi anche l’inquietante somiglianza con la schermata di un videogioco delle immagini trasmesse dalle videocamere dotate di mirino installate sulla punta dei missili lanciati durante la Prima guerra del Golfo (1990-91). Un conflitto tanto mediatizzato da portare Jean Baudrillard ad affermare provocatoriamente che essa non c’è mai stata. Lo stesso autore che pochi anni prima annunciava l’avvento di quella che sarebbe stata l’era del simulacro, della copia senza originale, fase finale di quella storia dell’immagine che è partita da uno stato in cui «essa maschera l’assenza di un fondamento di realtà» per arrivare al momento in cui non intrattiene più «alcuna relazione con una qualsiasi realtà: essa è il suo puro simulacro» (Baudrillard, 1980). La guerra del Golfo non sarebbe dunque stata che un’illusione mediatica, una simulazione.

Ed è allora che «lo scarto tra la proliferazione dell’esperienza visuale nella cultura postmoderna e la capacità di analizzare questo dato sottolinea sia l’opportunità sia la necessità che la visual culture diventi un campo di studio».
Un campo di studio che indaghi – con strumenti appropriati, capaci di adattarsi alle incessanti trasformazioni del panorama percettivo contemporaneo – la complessità dei processi di rappresentazione visiva; che metta in discussione canoni precostituiti e distinzioni come quella tra cultura alta e bassa, includendo nel suo orizzonte di ricerca anche forme culturali popolari e di massa; che illumini soprattutto la natura sempre storicamente, socialmente e politicamente costruita di tutte le immagini, anche di quelle che si presentano come naturali, oggettive, trasparenti.
Prendendo in considerazione anche l’insieme delle condizioni tecniche, mediali e sociali che permettono la visualizzazione, la trasmissione e la riproduzione di quegli oggetti culturali che sono le immagini, i visual culture studies indagano il vedere come un atto mai neutro o delocalizzato ma sempre portatore di un punto di vista spazialmente e temporalmente situato e si propongono così di ricostruire tutto quella spessa trama di intenzioni, credenze, valori e desideri che avvolge strettamente l’atto del fare e del fruire le immagini.

Bibliografia essenziale:
A. Pinotti e A. Somaini, Cultura visuale: immagini, sguardi, media, dispositivi, Torino, Einaudi, 2016
J. Baudrillard, Simulacri e impostura, Bologna, Cappelli, 1980
M. Belpoliti, Crolli, Torino, Einaudi, 2015
N. Mirzoeff, Introduzione alla cultura visuale, a cura di A. C. Hostert, Roma, Meltemi, 2002
W. J. T. Mitchell, Pictorial Turn – Saggi di cultura visuale, a cura di M. Cometa e V. Cammarata, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2017
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