
L’ultimo tabù di Giuseppe Previtali – La morte nell’immaginario occidentale
Recentemente è uscito, per l’editore Meltémi, L’ultimo tabù. Filmare la morte fra spettacolarizzazione e politica dello sguardo, di Giuseppe Previtali. Un libro che con gli strumenti della più recente critica, attraverso una bibliografia “ragionata” (Baudrillard, Mitchell, Sontag…), studia la contemporaneità e la contemporaneità più estrema, la sua naturale spettacolarizzazione e messa in onda.

Giuseppe Previtali (1991) è Assegnista di ricerca e docente a contratto presso l’Università degli Studi di Bergamo. I suoi principali interessi di ricerca riguardano le forme estreme della cultura visiva contemporanea e il problema dell’educazione visuale. Ha pubblicato estesamente su questi temi; in particolare, è autore delle monografie Pikadon. Sopravvivenze di Hiroshima nella cultura visuale giapponese (2017) e L’ultimo tabù. Filmare le morte fra spettacolarizzazione e politica dello sguardo (2020).
Su Birdmen Magazine pubblichiamo, in assoluta esclusiva, l’introduzione del libro:
«Nell’estate del 2014, il neo-proclamato Califfato (di seguito anche Stato Islamico o IS) guidato da Abū Bakr alBaghdādī ha diffuso la prima di una lunga serie di decapitazioni filmate. Nel video, programmaticamente intitolato A Message to America, veniva mostrata la messa a morte del giornalista americano James Foley per mano di un boia mascherato che sarebbe divenuto noto con il nome di Jihadi John. I media occidentali sono stati colti di sorpresa da questa improvvisa eruzione di una violenza visiva inedita per i network generalisti, cui ha fatto seguito l’innescarsi di un lungo dibattito circa la possibilità di mostrare o meno i video prodotti dallo Stato Islamico nei notiziari. La diffusione, a stretto giro, di altre decapitazioni di prigionieri inglesi e americani ha evidenziato la portata radicale della sfida che IS stava lanciando all’immaginario occidentale. Contro l’idea di una guerra “a distanza”, condotta attraverso l’impiego di armi chirurgiche, lo Stato Islamico rimetteva al centro del dibattito la dimensione cruenta e sfigurante del conflitto armato, attraverso un gesto – quello della decapitazione – denso di implicazioni simboliche.
Si è assistito insomma ad una potente polarizzazione ideologica, che ha fatto di quelle immagini un vero e proprio campo di battaglia parallelo a quello fisico. Se, nel giro di alcuni anni, lo Stato Islamico si è visto costretto ad abbandonare il proprio progetto di state building, regredendo sino quasi a scomparire, la sua vastissima produzione visiva costituisce ancora oggi un bacino che necessita di essere studiato in profondità, anche considerando il ruolo di modello che IS ha avuto nei confronti di numerose altre organizzazioni jihadiste. In questo senso, lo stile visivo dello Stato Islamico ha rappresentato una vera e propria rivoluzione nella galassia dell’estremismo islamico, facendo propria la lezione di al-Qaeda (che aveva adoperato le decapitazioni in video già nei primi anni Duemila) e aggiornandola al contesto mediale contemporaneo. Per chi si occupa di immagini in movimento, la produzione visiva dello Stato Islamico costituisce una fonte straordinaria, non solo perché questi video evidenziano un rapporto problematico ed in parte ancora da chiarire con l’immaginario visivo occidentale, ma soprattutto perché si presentano come la più recente incarnazione di un tema che attraversa la storia del medium fotografico e cinematografico. La morte rappresenta per l’uomo un’esperienza limite, l’attestazione della propria transitorietà; anche da una prospettiva antropologica, l’attenzione riservata al momento del trapasso e alla rimemorazione del defunto è il segno inequivocabile della centralità di questo evento dal punto di vista personale e collettivo.

L’immagine entra prepotentemente in questo discorso: secondo Plinio il Vecchio l’origine della pittura sarebbe da far risalire al desiderio di una giovane ragazza che, per ricordare il proprio amore partito per la guerra, ne traccia l’ombra del volto su un muro; già alla sua origine, in altre parole, l’atto di prendere un’immagine implica la compensazione di una mancanza. Ciò è tanto più vero quando l’assenza è quella radicale della morte e quando l’immagine diventa una copia perfetta: se Barthes osserva come la fotografia non sia altro che un’emanazione di un passato che non è più, Bazin riassume questo insieme di discorsi nella definizione del cosiddetto “complesso della mummia”.
Se guardare un’immagine è in qualche modo come guardare la morte (di chi è rappresentato, ma anche la propria), è interessante notare che tanto la fotografia quanto il cinema si sono confrontati continuamente con l’idea-limite del catturare il momento del trapasso, quell’istante di soglia che discrimina fra due condizioni radicalmente diverse. Si tratta di un’idea problematica, che chiama in causa la necessità di un’etica dello sguardo e che sembra infestare l’immaginario occidentale sin dagli albori della modernità. Questo libro insegue alcune manifestazioni di questa ossessione, interrogandosi sulla loro funzione e identificando la presenza di un doppio movimento, a cavallo fra la spettacolarizzazione della morte e il suo utilizzo come punto di partenza di una interrogazione che, a seconda dei casi, diviene teorica, etica o politica. Non si vuole qui proporre una mappatura completa delle manifestazioni della morte in fotografia e al cinema e neppure offrire una panoramica storica e culturale sui fenomeni che si analizzeranno; rimandiamo ad altra sede questo lavoro, che pure si ritiene cruciale. Gli oggetti visivi convocati in queste pagine sono semmai da considerarsi come alcuni fra i luoghi privilegiati di elaborazione del tema della morte filmata, in grado di rendere evidenti connessioni impreviste e filiazioni ancora non evidenziate. Il primo capitolo è dedicato ai cosiddetti mondo movies, falsi documentari italiani prodotti in gran numero fra la fine degli anni Cinquanta e la fine degli anni Ottanta. In questi film, che mostravano allo spettatore immagini violente catturate in giro per il mondo, il tema della morte assume con il tempo un progressivo protagonismo, ibridandosi con un ricco campionario di immagini erotiche e pornografiche. Dopo aver ricostruito la problematica ricezione critica dei mondo e averne identificato le linee principali di evoluzione storica, ci si interrogherà più direttamente sulle modalità retoriche con cui questi film sono riusciti a far credere vere le proprie immagini. Le sequenze di morte diventeranno in questo senso cruciali casi di studio per verificare come i mondo movies abbiano operato una peculiare e in qualche modo pionieristica rielaborazione della teoria del documentario. Successivamente, si affronterà il tema dello snuff movie, inquadrato a partire dalla sua natura mitologica e, per così dire, inattualizzabile. Con questo termine, diffusosi a partire dagli anni Settanta, si è soliti indicare video che dovrebbero presentare la morte reale di un individuo (solitamente una donna). A fare problema è il fatto che, per quanto di snuff si parli moltissimo, un oggetto visivo di questo tipo non è mai stato rinvenuto. Come si cercherà di dimostrare, infatti, lo snuff costituisce una sorta di concetto asintotico, un resto osceno che deve necessariamente rimanere invisibile (ma non inimmaginabile). Dopo aver tratteggiato l’origine del fenomeno e aver riflettuto sulla sua pervasività culturale, l’obiettivo primario sarà quello di ragionare sulle modalità attraverso cui i prodotti visivi che si avvicinano allo snuff contribuiscono a rafforzarne il potere fascinatorio.
Il terzo capitolo offre un ideale punto di collegamento fra i discorsi sui mondo e lo snuff e il caso del jihadismo contemporaneo. La ricognizione storica e teorica sui rapporti fra eventi bellici e media visivi e la discussione di alcune teorie recenti sul rapporto fra immagine e referente è funzionale a introdurre alcune delle questioni e degli strumenti metodologici utili ad analizzare le immagini di morte dello Stato Islamico. Nel contempo, l’individuazione dei punti di continuità fra mondo, snuff e video di IS consente di cogliere alcune contaminazioni impreviste fra queste diverse manifestazioni di un medesimo impulso scopico. Il caso dello Stato Islamico occupa il quarto capitolo, dedicato alle modalità con qui il gruppo guidato da al-Baghdādī ha rimesso al centro del dibattito pubblico la questione della morte filmata come forma di rivendicazione. Qui, i due movimenti citati in precedenza di spettacolarizzazione e interrogazione politica, concorrono in egual misura a definire una alternativa radicale alla narrazione della guerra fatta propria dall’Occidente. Dopo una serie di considerazioni sul ruolo della comunicazione visiva nella riflessione teorica jihadista, il capitolo analizza le varie tipologie di video dello Stato Islamico che presentano morti filmate, secondo format definiti che propongono peculiari strategie di contro-narrazione dell’immaginario bellico occidentale.
Questo volume deve moltissimo a Barbara Grespi, i cui insegnamenti sono per me un costante punto di riferimento. Il dialogo con Federica Sossi è stato fondamentale per mettere a fuoco gli interrogativi etici implicati nelle mie ricerche. La Spring School organizzata dall’Università di Udine è stata e continua ad essere per me un luogo di crescita, grazie in particolare a Giovanna Maina e Federico Zecca. Desidero ringraziare Ruggero Eugeni per i generosi suggerimenti sull’intera struttura della ricerca; Elena Dagrada e Monica Dall’Asta per le utili osservazioni sui contenuti del primo e del terzo capitolo; Tomaso Subini per l’accesso ai documenti del progetto “I cattolici e il cinema in Italia fra gli anni ’40 e ‘70”; Mirko Lino e Gabriele Marino per le preziose occasioni di scambio. Bianca Trevisan, Jennifer Malvezzi e Sara Tongiani sono state una presenza fondamentale in questi anni e le ringrazio. Infine, per il prezioso supporto nel reperimento dei materiali, desidero ringraziare il personale di Fondazione Alasca ed in particolare Daniela Vincenzi, Arturo Invernici e Chiara Zanotti. Questo libro è dedicato alla memoria delle mie nonne».
Dal 2015 Birdmen Magazine raccoglie le voci di cento giovani da tutta Italia: una rivista indipendente no profit – testata giornalistica registrata – votata al cinema, alle serie e al teatro (e a tutte le declinazioni dell’audiovisivo). Oltre alle edizioni cartacee annuali, cura progetti e collaborazioni con festival e istituzioni. Birdmen Magazine ha una redazione diffusa: le sedi principali sono a Pavia e Bologna
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