
Una pezza di Lundini – Una comica tragedia metatelevisiva
Valerio Lundini, nato a Roma nel 1986, è la novità più dirompente dell’ultima stagione televisiva del nostro paese. Chi il 7 settembre 2020 stava vegetando davanti alla televisione, si è trovato ad assistere a qualcosa di inaspettato e inedito. Una pezza di Lundini ha infatti le sembianze del rotocalco più generalista possibile – un conduttore superficiale, una signorina buonasera aggiornata, la band, il pubblico di figuranti, le clip, gli ospiti – ma anche il più sonnacchioso degli spettatori non può non accorgersi di una sibilante ambiguità.
Già, perché quella di Lundini, nonostante ne ricordi le dinamiche, i toni e le pose, non è La Vita In Diretta, nel senso che non è propriamente e esclusivamente televisione e basta. D’altro canto, non è solamente un ragionare di televisione, un programma di critica e decostruzione del mezzo, come potrebbe essere il mirabile Tv Talk di Massimo Bernardini. È piuttosto una messa in scena della televisione, non esclusivamente satira, non del tutto parodia.
È importante notare come la messa in discussione del mezzo televisivo abbia origini ben più lontane. Tralasciando il radicale e rivoluzionario Blob di Enrico Ghezzi, fin dal film collettivo Signore e Signori, Buonanotte (1976), i tic e le nevrosi del discorso televisivo sono stati setacciati in ogni deviazione assurda e grottesca. Tra gli esempi più noti e virtuosi non si possono non citare i telegiornali straniati del trio Marchesini-Lopez-Solenghi e quelli del compianto Gigi Proietti. Detto ciò, va sottolineato come questi esempi non uscissero dai bordi della gag comica da varietà, quindi ancora prettamente incastonati nel discorso televisivo a cui facevano il verso.

In un territorio ibrido tra il cabaret e una riflessione più profonda sulla televisione, sta Corrado Guzzanti, non tanto nei suoi personaggi singoli (uno su tutti: Vulvia, su Rieducational Channel), ma piuttosto nell’esempio ammirevole quanto dimenticato de Il Caso Scafroglia (2002, Rai 2) in cui il comico usava il pretesto narrativo della scomparsa di un uomo qualunque per restituire in chiave satirica tematiche sociali e di costume, giocando sulla linea di confine tra serialità e programma comico. Ma Il Caso Scafroglia rimane un programma che, nonostante l’originalità della linea narrativa e la genialità di Guzzanti, ha la funzione principale di farsi contenitore per il talento del suo mattatore, più che quella di gettare uno sguardo tagliente sulla tv.
Ma soprattutto, se Guzzanti prendeva in giro la tv con personaggi prettamente teatrali, ingenui e in balìa di sistemi più grandi di loro, quello portato in scena da Lundini è invece un individuo moralmente deprecabile, un anti-leader ridicolmente autoritario, un accorato aziendalista ipocrita e asservito. Non si tratta solo di una satira al conduttore medio della tv generalista, ma piuttosto di una parodia del costume televisivo più monacale, omertoso, ignorante ma comunque largamente interiorizzato dallo spettatore medio. E qui sta la forza dirompente del format, o meglio: dell’anti-format.
Lundini è certamente un comico ma è anche un personaggio che stenta a lasciare spazio al suo interprete, una vera e propria maschera stralunata che si perpetua con gli stessi toni e le stesse pause anche quando vaga per il palinsesto in qualità di ospite (ad esempio nel preserale a I soliti Ignoti di Amadeus). Va però sottolineato come, pur essendo a tutti gli effetti una maschera comica ben adesa al volto del Lundini-autore, il Lundini-personaggio neghi alcuni dei crismi del racconto comico a cui il nostro cinema e la nostra televisione ci hanno abituato.

I vari Villaggio, Totò, Sordi sono scritti su una legge silente di simulazione di inferiorità nei confronti del pubblico, una meccanismo elementare del riso. Diversamente, Lundini sceglie la mimesi al soggetto che vuole parodizzare: non un presentatore in particolare, ma un presentatore iper-verosimile, bonario, maschilista, superficiale ma soprattutto confidente nel fatto di essere superiore al contesto in cui è immerso. La sua ignoranza, a differenza di quella di una maschera come Checco Zalone, non è esibita in modo plateale, ma comicamente camuffata da discorso ordinario da tv generalista. E questo è il dato tragicamente vero di Una Pezza di Lundini.
Questo approccio mimetico al contenitore televisivo sui generis, restituito soprattutto dal ritmo del parlato, dai toni e dalle pause straniate, viene poi rivelata da toni più assurdi, molto spesso adibiti alle piccole drammaturgie messe in scena con gli ospiti. Già, perché di fatto, quelle di Lundini-autore sono rappresentazioni comiche delle interviste a cui siamo abituati come pubblico, ovvero la sottolineatura di un’abitudine tutta televisiva che è radicalmente disinteressata all’oggetto di cui parla, alle storie che vuole raccontare (vedi le surreali clip di presentazione di ogni guest). Quella di Lundini non è quindi una semplice caricatura del talk show televisivo, ma una messa in scena dei suoi limiti e del suo approccio funzionale ai contenuti: una deviazione comunicativa che ha le sue radici nell’avvento della tv di servizio e di quello dell’emotaiment targato Mediaset.
La pezza è, nel linguaggio televisivo, un tappabuchi, un pretesto per non lasciare nudo il palinsesto in un determinato interstizio orario nel caso di imprevisto. Proprio nel suo proporsi come interferenza inattesa del discorso televisivo quotidiano, si può individuare nel radicale Onda Libera di Roberto Benigni un degno antenato del programma di Lundini. Ma se l’iconico contadino Cioni arrivava fortuitamente a connettersi alle frequenze Rai per dissacrarle, presentandosi come una anomalia della programmazione, una deviazione sacrilega quanto estranea a qualsiasi prassi del tubo catodico, Lundini e le sue pezze sono funzionali e a disposizione del sistema televisivo. Di conseguenza, il sofferto programma del Lundini-personaggio non può che ammettere la sua attitudine pressappochista e disaffezionata, il vuoto espressivo che sta dietro la scaletta.

È proprio nelle pause arrese di Lundini, negli sguardi mortificati di Fanelli, nel prolungarsi di uno stacco dei Vazzanikki o nell’intervento scomposto di un figurante che nella narrazione irrompe il momento dove comico (del programma in questione) e tragico (della televisione italiana più diffusa) si incontrano, confluendo nel grottesco. Oltre a questa ambiguità narrativa, il grottesco di Una pezza di Lundini contiene in sé anche una biunivocità formale, perché questo programma va a collocarsi nello spazio intermedio tra talk show e serialità comica.
Da una parte infatti, gli elementi para-testuali (lo studio, la grafica, la regia, etc.) rimangono quelli della televisione, dall’altra, quelli narrativi si legano alla scrittura seriale e ad una vera e propria drammaturgia, con dinamiche, relazioni e ambientazioni consolidate ma evolvibili che sono tipiche della situation comedy – per cui si potrebbe affermare che Boris sta alla fiction come Una pezza sta al contenitore pomeridiano. Come nell’iconica serie di Ciarrapico-Torre-Vendruscolo, infatti, si palesa il dietro le quinte, si straripa dall’on air televisivo, soprattutto nelle scene/scenate di Lundini-Fanelli. Ma la differenza è che se Boris non coincide con “Gli occhi del Cuore”, Una pezza è invece sia il programma che la sua disvelazione simulata.

Il dietro le quinte messo a nudo è l’attestazione della realtà svilente che sta dietro la facciata buonista e per tutti di un programma della Rai. La scaletta reale del programma è quindi di fatto una sceneggiatura in cui niente è lasciato alla spontaneità, nella quale nella superficie del flusso televisivo si innescano schegge di verità simulata degli addetti ai lavori, clip e servizi in esterna che vanno ad arricchire la forte pregnanza e adattabilità del programma sulle piattaforme.
Da etimologia, la parola “Palinsesto”, significa “raschiato di nuovo”, in un certo senso “riscritto”, riproposto giorno per giorno. Oggi, quel palinsesto, leitmotiv rutilante dell’elettrodomestico più divertente che abbiamo in casa, viene frammentato in tante piccole pezze, schegge di nonsense e comicità ficcante: Una, dieci, mille pezze di Lundini, che per il grande successo della stagione scorsa è tornato con la seconda, ancora più serrata nel ritmo, ancora più rotonda nella caratterizzazione dei personaggi e probabilmente ancora più seguita dal pubblico.
Ma la forza di Una Pezza di Lundini rimane la sua complessità picaresca, il suo apparente disordine e affollamento. Talk show politici, info-taiment, varietà, tv di servizio e tv del dolore: tutta la tv sbriciolata in salsa comica, ma impiantata su una drammaturgia articolata, che ci fa ridere di ciò di cui ci siamo abbeverati per anni e anni, anestetizzati col pollice immobile sul tasto del telecomando. “Spezza!”.
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