
Casanova: macchina celibe | Fellini 100
Il Casanova di Federico Fellini è uno dei film più spettacolari nella filmografia del regista, eppure anche uno dei meno studiati. La sua impostazione spiccatamente teatrale è tutta volta a sottolineare l’artificialità di un mondo al collasso, la fine di un’epoca e di una certa visione del mondo (in questo, con le dovute differenze, non è così lontana dalla prospettiva apocalittica di Morte a Venezia, che lo precede di pochi anni).
Mario Verdone, nelle sue acute annotazioni sul film, ricorda – a partire da un aneddoto personale – l’interesse del regista per l’aspetto carnevalesco delle manifestazioni di piazza, degli spettacoli collettivi. Se già l’aggettivo “felliniano” (ormai di uso comune) si ricollega con forza ai corpi giunonici e spesso eccedenti delle sue donne, la dimensione cosmica del Casanova traduce questo interesse autoriale in una vera e propria fenomenologia del grottesco.
Le situazioni episodiche che costituiscono il filo conduttore del film sono come dei piccoli racconti autoconclusivi, frammenti estratti dal flusso continuo e imprevedibile della vita del seduttore. Ha ragione Verdone quando ne parla come di teatrini o ancor meglio di “sacre rappresentazioni (alla rovescia)”. Nelle situazioni varie e imprevedibili di questo “spettacolo oculare” i personaggi e i corpi si coagulano in coreografie che lasciano al centro sempre e solo l’ultimo dei libertini.
Al centro c’è sempre il corpo, vecchio ma energico di Casanova, eterno seduttore. Un corpo che agisce e copula in forma di automatismo, con scatti nervosi ed eccessivi, a tratti grotteschi. In questo sta la sua natura intimamente macchinale, che trova il suo doppio necessario nella figura della bambola.
Casanova è insomma una macchina, forse una macchina celibe non troppo diversa da quelle immaginate da Duchamp (penso in particolare al Grande Vetro, ma non solo). Il movimento cinetico delle parti che la compongono è sempre inutile, vuoto, improduttivo. È un dispendio (dépense), un prosciugarsi che diventa, per un Casanova sempre più vecchio, una condanna.
È in questi momenti che si esplicita la presenza della morte nel film, che vi appare come il complemento ineliminabile dell’estasi erotica. Bataille, ne Le lacrime di Eros, lo ha d’altronde spiegato molto bene: c’è sempre una componente omicida che si annida nel sesso e Il Casanova non fa che ricordarlo, contravvenendo però al grande divieto di Bazin (per cui era esperienza infilmabile). È forse in questo che sta l’ultima trasgressione del libertino?
La Venezia di Fellini è uno spazio irreale, non meno onirico di quello che lui stesso riportava con grande scrupolo nel suo Libro dei Sogni (che ancora oggi si rivela utilissimo per comprendere l’ispirazione e l’iconografia del regista). È un luogo artificiale, i cui riferimenti visivi più immediati vanno cercati forse negli intimi e spesso inquietanti salotti dipinti da Pietro Longhi proprio negli anni in cui il film è ambientato. Non si tratta solo di una vicinanza cronologica e geografica: a connettere queste due manifestazioni di una stessa cultura visuale è la presenza aleggiante del segreto, del non detto, di quel sottinteso che si gioca negli sguardi e nei gesti e che è alla base di ogni seduzione.
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