
You will never have it the easy way – Fellini & Simenon, l’epistolario | Fellinopolis
«È sempre miracoloso scoprire di avere un fratello da qualche parte»
In questa frase, indirizzata dal regista allo scrittore, si condensa il trentennale epistolario tra Federico Fellini e George Simenon. Entrambi già in vita furono considerati tra i maggiori esponenti delle rispettive arti: Federico Fellini, classe 1921, aveva dato vita a un’originale commistione tra cinema e sogno, girando uno dopo l’altro capolavori come La Strada, Le Notti di Cabiria, La Dolce Vita e 8 e 1/2; George Simenon, classe 1903, è stato verosimilmente lo scrittore più prolifico di tutto il Novecento, autore di diverse centinaia di romanzi tra cui il celeberrimo ciclo del commissario Maigret.

Il rapporto tra Fellini e Simenon si consuma in due importanti occasioni pubbliche e in un fitto scambio epistolare durato fino alla morte dello scrittore francese, nel 1989.
Al Festival di Cannes del 1960 era stato infatti determinante l’intervento di Simenon, presidente della Giuria, per assegnare la Palma d’Oro a La Dolce Vita, che aveva suscitato a una parte dei critici e dei giurati reazioni contrastanti per non dire fredde.
Un quindicennio dopo, l’importante quotidiano francese «Le Monde» chiese a Simenon di realizzare una densa intervista-dialogo con il regista, in occasione dell’uscita oltralpe del Casanova, ultimo successo internazionale di Fellini interpretato da un giovane Donald Sutherland. È a questa occasione che risale la più celebre fotografia che ritrae i due: ma al di là di queste circostanze pubbliche e un po’ glamour, Fellini e Simenon strinsero sulla carta un rapporto denso e profondo, a tratti filiale, certo uno dei più affascinanti ed emotivi epistolari del secolo scorso.

Il rapporto epistolare tra Fellini e Simenon iniziò poco dopo la vittoria della Palma d’Oro al Festival di Cannes, ma iniziò a farsi più fitto attorno al 1969, quando Simenon si ritrovò citato da Fellini in un’intervista sul Satyricon, come un altro “creativo” con il quale il regista avvertiva una profonda affinità elettiva. Fellini, sin da ragazzo lettore dei romanzi dello scrittore francese, non nascondeva a Simenon di provare «un forte complesso nei suoi riguardi», ma dall’altra parte il suo interlocutore rivelava un’umanità e una finezza d’ascolto profondissime, e non nascose un crescente affetto per il regista italiano per lui di quasi vent’anni più giovane, fino ad arrivare a chiamarlo “fratello” nell’incipit di alcune lettere.
Scorrendo lungo il loro epistolario pubblicato qui in Italia da Adelphi, vediamo come Fellini e Simenon si facciano scambi di pregiato vino toscano, leggiamo Fellini raccontare a Simenon i suoi sogni come prima faceva con Bernhard, Simenon che dal canto suo confessa a Fellini di avere a sua volta una grande passione per il circo. Uno degli sfondi su cui si proietta questa relazione, giocatasi in massima parte sulla carta con pochi incontri di persona nel corso dei decenni, è l’interesse che accomuna entrambi verso la psicoanalisi junghiana: in due lettere vicine, prima è Fellini che invia allo scrittore una descrizione particolarmente vivida della sua visita alla casa del defunto Jung tra le montagne della Svizzera, poi è Simenon a ricordare il suo incontro sfumato con il grande analista svizzero, avendo appreso da un comune amico giornalista che lo stesso Jung era un lettore appassionato di Simenon poco tempo prima che Jung morisse.

Simpatica da rilevare è anche la differenza di carattere che affiora da queste lettere. Nei confronti di Simenon, Fellini continuò fino alla fine a nutrire la venerazione che poteva avere nei suoi confronti chi leggeva i suoi romanzi già da decenni; Simenon al contrario, pur sperticandosi in lodi per ogni film di Fellini che usciva, anche per opere tardive e meno apprezzate come Ginger e Fred, era molto aperto nei confronti di Fellini, e gli ripeté più volte di indicare sempre lui ogniqualvolta che gli si chiedeva chi fosse, a suo parere, un vero “genio” di quei tempi.
«Probabilmente lei è l’unica persona cui mi senta legato sul piano creativo», confidò una volta all’amico regista, per aggiungere, pochi mesi dopo, che «in due diverse forme d’arte noi perseguiamo lo stesso fine: una più profonda conoscenza dell’uomo, per non dire dell’umanità. Ed entrambi lo facciamo in un mondo che si potrebbe definire anti-intellettuale», particolarmente istintivo nel caso di Fellini. «Siamo come spugne, assorbiamo la vita senza saperlo e la restituiamo poi trasformata, ignari del processo alchemico che si è svolto dentro di noi». Particolarmente vivido è il tono con cui Simenon si rivolge a Fellini per mezzo di telegramma, subito dopo aver visto per la prima volta Il Casanova: «Caro e unico Fellini stop Sono incantato e profondamente scosso dal suo Casanova stop è un affresco superbo e magistrale e al tempo stesso una profonda introspezione per non dire psicoanalisi».

Il rapporto tra Fellini e Simenon si concretizzò, come dicevamo, quasi tutto sulla carta, tanto più che lo scrittore, morto quasi novantenne, negli ultimi decenni della sua vita raramente si spostava da Losanna. Questo non impedì a Fellini, quando era impegnato con le riprese de La città delle donne – «la prima volta che mi capita di fare un film in condizioni di noia e di allarme insieme», come scrisse all’amico – di fantasticare di «avere qui sul set il mio amico Simenon, e stare qui in mezzo a tutte queste donne, tutte e due insieme». Simenon declinò a malincuore l’invito, ma continuò a seguire a distanza le riprese anche nei momenti concitati che seguirono alla morte del co-protagonista Ettore Manni, quando ancora La città delle donne era lontana dall’essere finita.
Una volta uscito il film però, Simenon si trovò paradossalmente a dover tardare la visione de La città delle donne perché, stando scrivendo un nuovo romanzo, «non me la sento di affrontare le emozioni sconvolgenti che la visione di una sua opera scatena in me». Tre mesi dopo Simenon organizzo una proiezione privata della pellicola nella sua dimora e tempestivamente scrisse a Fellini «mai la sua opera ha avuto tanta profondità e potenza…». Simenon potrebbe essere così annoverato, al fianco di Italo Calvino e di Goffredo Fofi, tra i maggiori estimatori dell’opera del Fellini maturo, certo meno nota al grande pubblico rispetto a capisaldi come La Dolce Vita o I Vitelloni, e generalmente meno stimata anche dalla critica.

L’epistolario tra Fellini e Simenon è interessante anche per le tracce che porta di una questione editoriale destinata ad avere un peso tutt’ora tangibile nel mondo culturale italiano. Le opere di Simenon in Italia venivano tradizionalmente pubblicate dalla Mondadori, ma lo scrittore, soprattutto dopo la morte del fondatore Arnaldo, aveva avvertito un crescente disappunto nei confronti della casa editrice, poco interessata a tradurre altri suoi romanzi diversi dal prolifico ciclo di Maigret. Simenon venne allora avvicinato da Roberto Calasso, ai vertici della casa editrice Adelphi ai tempi attiva da dopo più di vent’anni.
Come attestano sia l’epistolario Fellini-Simenon, pubblicato proprio dall’Adelphi, sia diverse interviste in cui Calasso si esprimeva con gratitudine nei confronti del regista, le parole di stima che Fellini gli scrisse a proposito della casa editrice milanese furono importanti nel togliere a Simenon le ultime riserve e a fargli decidere di cambiare editore: l’Adelphi iniziò a pubblicare in Italia tutti i Simenon extra-Maigret, e, una volta scaduti i diritti, realizzò nuove e pregiate edizioni anche dei romanzi che vedevano protagonista il noto commissario. I libri di Simenon rappresentarono una delle maggiori fortune editoriale della storia della Adelphi, e tutt’ora figurano in gran numero in tutte le librerie italiane, contraddistinte da un ormai iconico formato giallo. Tra i primissimi Simenon ad essere pubblicati dall’Adelphi, Lettera a mia madre, che pare fece commuovere Giulietta Masina fino alle lacrime.

«You will never have it the easy way», scrisse una volta Simenon a Fellini in un inaspettato inglese, per confortarlo dalle frustrazioni personali e produttive che notoriamente lo accompagnavano in occasione di ogni nuovo film. «Credo che nessuno dei grandi creatori che reputiamo geniali abbia mai lavorato in uno stato di sorridente euforia»: l’epistolario Fellini e Simenon consente di assistere al dialogo tra due geni colto nel suo farsi, “a cuore aperto”, con toni charmant e raffinatezze intellettuali che nel passaggio dalle lettere alle mail si sono completamente perse. Pubblicato dall’Adelphi già nel 1997, tra poco oggetto di un documentario disponibile su RaiPlay con la voce di Francesco Pannofino, l’epistolario Chér Fellini, carissimo Simenon è una testimonianza unica della vita creativa e della quotidianità di due uomini che hanno plasmato e riplasmato l’immaginario dell’intero Novecento.
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