
Roma, un’anti-cartolina firmata Federico Fellini
Quando si dice Fellini, si dice Roma. È un legame inestricabile, non foss’altro per il fatto che dal 1960 de La dolce vita la Capitale ha vissuto un eterno turismo di rendita incentrato sugli stranieri desiderosi di inseguire il glamour di Anita Ekberg e Mastroianni a bagno nella Fontana di Trevi.
Non capita però spessissimo che quando si dica Fellini, si dica anche Roma, nell’accezione del suo film del 1972: quando infatti il regista riminese tentò l’ambiziosissima sfida di intitolare un film come la città eterna (o, significativamente, Fellini’s Roma, nelle versioni straniere), l’impatto sul pubblico non fu tra i più memorabili della sua carriera.
Ma perché Roma non è diventata l’opera più nota di Fellini, il matrimonio perfetto tra l’autore barocco per eccellenza e la città barocca per definizione? Forse perché Roma è l’anti-Amarcord, un pot-pourri senza trama che vaga tra ambienti, protagonisti, periodi storici, toni e generi cinematografici come una trottola che scelga di fermarsi in un punto a caso e, sosta dopo sosta, tenti un impossibile ritratto della città che secondo il regista era «la madre ideale, perché non ti obbliga a comportarti bene».
E forse, proprio per questo, è invece un’opera molto amata dai felliniani più devoti come Paolo Sorrentino, che più volte ne ha magnificato la libertà di stile e prima ancora de La grande bellezza lo ha definito «il film-sogno che vorrei fare, perché non ha una storia». Se già dai tempi de La dolce vita Fellini tendeva infatti alla destrutturazione in episodi, e se già da 8 ½ saltava dal presente al passato ai sogni, Roma è la sua più compiuta opera aperta, così slegata da obblighi narrativi e personaggi fissi che il suo finale arriva inaspettato, come se potesse continuare ancora all’infinito con un pezzo di bravura dopo l’altro.

La Capitale viene vista inizialmente da lontano, ovvero da Rimini, dove per i primi minuti si ha una carrellata popolaresca (e genuinamente divertente) di bozzetti di vita felliniana infantile in cui Roma era solo immaginata, una sorta di prova generale per Amarcord. Poi, a sorpresa, lo stacco verso la stazione Termini nel 1939, con un giovanotto vestito di bianco che come in un I vitelloni – Vent’anni dopo scende dal treno e si perde tra il fumo, i fattorini e i cartelloni pubblicitari.
Questo quasi-protagonista un po’ impalpabile che interpreta il regista da giovane sarà l’osservatore più ricorrente del film, offrendoci la rievocazione nostalgica della Roma vista da Fellini a vent’anni, tra le grandi abbuffate nei ristoranti all’aperto, le case di tolleranza e i teatri di varietà dal pubblico incontentabile che tira gatti morti agli artisti in scena.
In Roma però manca la Fontana di Trevi (e non stupisce), ma mancano anche mille altri scenari da cartolina della capitale, perché in fondo – e basta leggere le pagine del suo Fare un film (1980) per averne conferma – la Roma che interessa a Fellini è poco cartolinesca e molto criticabile, rinchiusa «in un cerchio gastrosessuale», «abitata da un ignorante che non vuole essere disturbato» e che «non crede che la curiosità serva a qualcosa». Poi però «quando Roma ti raggiunge con questa antica malìa, tutti i giudizi negativi che puoi aver dato su di lei scompaiono e sai solo che è una fortuna abitarci».

Fellini però, al contrario di quanto farà poi in Amarcord l’anno successivo, non si limita a rievocare nostalgicamente il suo passato, ma – a sorpresa – salta da un tempo e da un genere all’altro, e lo vediamo comparire in carne ed ossa negli anni Settanta mentre, ingranando la marcia documentaristica, ci guida alla scoperta del recentemente inaugurato Grande Raccordo Anulare. Ed ecco che questa autostrada «che circonda la città come un anello di Saturno» diventa una bolgia infernale ricostruita a Cinecittà dalla stessa azienda che aveva appena costruito il Raccordo reale.
Sarà tutto un andirivieni tra presente e passato, finzione e falso documentario, con gli studenti hippie appollaiati sulla fontana di Santa Maria in Trastevere da cui Fellini si fa autoironicamente punzecchiare, quando gli chiedono se il film in preparazione tratterà «dei problemi delle fabbriche, delle borgate», per evitare che esca fuori «la solita prospettiva qualunquista della Roma sciatta e pacioccona, disordinata e materna». E puntualmente, come farà decenni dopo Nanni Moretti in Aprile (1998), il regista sfugge ai suoi doveri d’impegno politico e immediatamente pensa a girare la scena del teatrino d’avanspettacolo, tra ballerine, volgarità assortite e Alvaro Vitali.
Eppure, con tutta la sua “bella confusione”, per chi voglia immergervisi Roma è uno straordinario esempio del talento poliedrico dell’autore: in parte istantanea della città negli anni Settanta vista come «in un documentario sull’Amazzonia» (e le versioni internazionali confermano l’impressione, con molti inserti di un narratore in voce off); in parte delirio di immagini visionarie e felliniane al 100%, come la sfilata di moda a tema ecclesiastico anticipatrice del Casanova (1976); in parte emozione vera senza tracce di grottesco, come nella scena degli affreschi romani scoperti negli scavi della metro A o nell’incontro notturno con Anna Magnani, a cui sono affidate le ultime parole di rimprovero bonario: «Ah Federi’, va’ a dormi’, va’».
E si sa, quando Fellini dorme non fa sogni qualunque.

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