
“Tolo Tolo” e il cinema politico italiano
Quando si ha a che fare con quei film che raggiungono un grado di visibilità quasi totale presso il pubblico, è sempre difficile sintetizzare tutti i discorsi che si accodano al film stesso. Basti ricordare il recente caso di Joker, sul quale non si è ancora finito di discutere. Essendo sempre più raro che i film riescano nell’impresa di raggiungere gli spettatori più svariati (sia in termini numerici, sia in termini di nicchie di pubblico), quando ciò accade ne segue – giustamente – un dibattito assordante e talvolta incessante.
E così il 2020 si apre con i fuochi d’artificio e con Tolo Tolo, accompagnato da un dibattito ben poco fertile dopo i primi giorni da record al botteghino. A detta di molti, critici e non, l’arco temporale di quattro anni dall’ultimo film, Quo vado?, sembra aver influito positivamente sul lavoro di Checco Zalone. Sicuramente vi sono dati accattivanti: il passaggio di Zalone alla regia, la collaborazione con Paolo Virzì per la sceneggiatura e il tema dell’immigrazione come pilastro portante del film. A mio avviso, però, è molto più interessante l’approccio adottato verso questo tema e il gesto per così dire “politico” compiuto con questo film, come si vedrà.
Prima di tutto – prima ancora di battere i suoi stessi record di incassi – l’artista pugliese ha dato vita a una campagna pubblicitaria ancora più virale del film stesso: un formato breve – quello del videoclip con la “canzone-trailer” Immigrato – in grado di assaltare il pubblico da ogni parte e in ogni forma: dagli schermi della ormai arcaica televisione, così come da tutti i social network possibili e immaginabili. Nessuno può negare di avere nelle orecchie il motivetto di questa canzone di “cotugnesca” memoria.
Una modalità semplice, diretta e chiara di fare promozione al film, a differenza di quanto accade solitamente nella nostra cara “Italietta”. Il videoclip è capace di creare l’aspettativa per un film che pare ritrarre l’Italia e gli italiani come “invasi” nel loro stesso territorio dagli immigrati (secondo la retorica ben nota di alcuni partiti politici); salvo poi cimentarsi in un’opera che è un ritratto, sì dell’Italia e degli italiani, ma visti da fuori, da lontano.
Il protagonista, la solita maschera comica stralunata e “sulle nubi” di Checco Zalone, si trova ad affrontare il distacco volontario dal proprio Paese per questioni di debiti. Durante il viaggio di ritorno, che Checco intraprende insieme ai migranti africani, succedono imprevisti di ogni tipo legati alla guerra e al terrorismo, ma niente spezza l’ingenuità dello sguardo del protagonista.
Tuttavia, una volta tornato in Italia, alla fine di un vero e proprio viaggio della speranza, è come se lui stesso fosse diventato un immigrato all’interno del proprio Paese, un Paese che lo ha rifiutato e che lui stesso rifiuta per l’indifferenza dimostrata verso i profughi.
Dunque, se nel videoclip veniva adottato lo sguardo velatamente razzista imperante nei discorsi quotidiani di molti italiani, il film, invece, traghetta gli spettatori al di là del Mediterraneo, per mostrare quella che potrebbe essere la storia passata di ognuno dei migranti che arrivano vivi sul nostro territorio.
Compiendo questa operazione vengono abbandonate molte delle possibilità comiche del film ed è proprio in questo che risiede il gesto “politico” compiuto dall’artista pugliese. Distaccarsi dall’ideologia dominante tra gli Italiani sulla questione dell’immigrazione diventa per Zalone una necessità morale e umana, che si riversa anche sullo stile della commedia. Il film si dimostra sensibile e morigerato verso il tema che affronta e i momenti più brillanti emergono proprio laddove la comicità delle battute viene consapevolmente depotenziata dal contesto in cui vengono inserite: una telefonata all’ex moglie nel mezzo di un attentato terroristico, gli sproloqui di Vendola al telefono mentre Checco è in un campo di prigionia, il tuffo in mare dalla nave ONG per pescare i calamari.
Una comicità, insomma, che si assottiglia e perde i tratti demenziali che fanno solitamente spanciare il pubblico in sala. Come a voler dire che la commedia si trova di fronte a un limite e che il suo statuto consolidato sta vacillando. Non si è ancora alla narrazione dell’indicibile orrore, come in La vita è bella, ma si va in una direzione che la commedia sostiene a fatica. Non si è di certo nel territorio del black humor, ma nemmeno in quello della commedia sempliciona. Il meccanismo comico è congegnato per rischiare continuamente il collasso e l’inadeguatezza. Un equilibrio molto particolare, dunque, che riesce a mantenere la consueta leggerezza senza mai raggiungere il dramma, assolutamente estraneo al personaggio Zalone. Un equilibrio che non sfocia né nel cinismo bruto, né nel moralismo. Insomma, c’è coerenza tra forma e contenuto del film.
Se rimane un posto per una risata più spontanea, questo è nelle fantasie che si alternano all’interno della mente del personaggio: le fantasie di fascismo e le fantasie di buonismo, per così dire. Sono rappresentazioni della schizofrenia italiana che vengono incorporate nel personaggio di Checco. Perdendo il contatto con la realtà nell’irrazionalità del sogno, Zalone immagina un mondo perfetto dove l’integrazione e l’uguaglianza sono pratiche consolidate e dove regnano benessere e interesse culturale reciproco; oppure va in preda ad allucinazioni fasciste e razziste che danno sfogo al fastidio gratuito per il diverso da sé. In queste rappresentazioni caricaturali c’è ancora spazio per ridere, ma solo per la risata consapevole di chi riesce a percepire queste terminazioni difettose dei neuroni italici.
A metà tra queste due fantasie si trova la cruda realtà dell’immigrazione, tenuta accuratamente in disparte dal film proprio perché accuratamente ignorata dall’italiano-tipo. Casomai, il reale è evocato solo attraverso i richiami al neorealismo italiano fatti dal personaggio di Oumar (Souleymane Sylla) che guarda Roma città aperta e Mamma Roma; richiami ormai forse troppo lontani, purtroppo.
È evidente che non siamo di fronte a Le jeune Ahmed, ultimo film dei fratelli Dardenne, o a un cinema di impegno civile e politico in senso stretto, come il titolo di questo articolo tende provocatoriamente a far credere. Tolo Tolo è piuttosto una commedia che si impegna ad essere civile e forse “politica”, nella misura in cui è consapevole sia dei propri limiti che delle proprie potenzialità.
La certezza matematica di incassi mastodontici non porta necessariamente con sé la promessa di assumere il tono più adeguato per parlare di immigrazione. Eppure, è accaduto che un film predisposto per un bacino d’utenza immenso si sia interrogato scrupolosamente su che cosa dire e su come dirlo al meglio. Sembra scontata come cosa, ma è proprio qui che risiede il gesto politico di responsabilità (e sensibilità), che solitamente non si trova nel cinema “mainstream” (etichetta peraltro estremamente inadeguata e superficiale).
Un gesto tendenzialmente autoriale. Sono gli autori che riflettono a livello meta-cinematografico sullo stile in relazione al contenuto, sul pubblico di riferimento e sul genere che si affronta. Ma la tendenza tra gli “autorevoli autori” italiani è quella di dedicarsi – doverosamente, sia chiaro – ai “buchi neri” della storia d’Italia (Il divo, Il traditore) fino a Berlusconi (Loro), un po’ come nei libri di storia. Il fatto è che ci troviamo ormai in un’epoca “post-caimana”, dove la repubblica “dei comici” si è dissolta e dove il disagio sociale, ben incarnato da alcune posizioni politiche, tende continuamente al Tragico.
Non è poi così strano, allora, che sia una Commedia, il genere popolare per eccellenza della tradizione italiana, ad aver capito questa situazione e averla resa visibile a tutti attraverso il suo esponente più noto oggi. Consapevole del pubblico che lo segue, mantenendo la propria identità comica e al contempo adattandola a nuovi contesti, è come se Zalone avesse voluto portare potenzialmente 60 milioni di persone in sala e, da lì, in mezzo al Mediterraneo. Forse per mostrare fino a che punto si può ridere spensierati nella nostra piccola “Italietta” che, come Spinazzola, non è nulla di più di un paesino guardingo e timoroso della violazione dei propri limitati confini geografici e orizzonti culturali. E la commedia (in quanto genere), così, si dimostra debole, inefficace e inadatta ai nostri tempi, rischia di non far più ridere. Una dichiarazione decisa e proprio per questo politica, perché fatta con consapevolezza.
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