
Il traditore – La lunga notte dell’Italia secondo Bellocchio
Per la prima mezzora de Il traditore, Marco Bellocchio si tiene a una moderata distanza dall’estetica straniante del suo cinema – che, viceversa, trasformava i primi minuti di Fai bei sogni nella furente rapsodia di un inconscio intermediale. È il 1980 e a Palermo, a casa di Stefano Bontate, Tommaso Buscetta (Pierfrancesco Favino) partecipa alla celebrazione dell’accordo fittizio tra palermitani e corleonesi, fiutando il pericolo che di lì a pochi mesi lo spinge alla fuga in Brasile. Don Masino è già in Sud America quando scoppia la seconda guerra di mafia, sintetizzata in una sequenza in cui il vertiginoso conteggio dei morti si sovraimprime alle immagini degli omicidi, con un espediente di sorrentiniana memoria (Il Divo). Dopo un inizio scandito da inconsueti ritmi frenetici e da uno stile essenziale, all’incedere di spazi sempre più cupi e angusti si acuiscono anche la distorsione grottesca, l’espressionismo surreale, lo scandaglio psicanalitico – sociale e individuale – consueti al regista, compreso un momento onirico in cui il protagonista assiste al proprio funerale.
Ma è con l’ampia sequenza del maxi-processo che Bellocchio dà sfogo al proprio immaginario allucinato: l’apparizione delle mogli dei pentiti come delle prefiche urlanti, il detenuto che si cuce la bocca con ago e filo, le convulsioni simulate, il presidente della giuria Alfonso Giordano che tenta di ristabilire l’ordine come un insegnante alle prese con alunni indisciplinati. L’aula bunker dell’Ucciardone, luogo-simbolo dell’immaginario collettivo nella lotta a Cosa nostra, viene riconfigurata da Bellocchio in spazio teatrale in cui si esplicitano i meccanismi della messa in scena, condizione connaturata all’universo mafioso e traccia sottesa a tutto il film (gli accordi di facciata tra clan, le false identità, la rete di inganni). L’uso del grottesco finisce soprattutto per incidere sullo scarto tra due immagini di quel potere che il pool antimafia aveva iniziato a minare, ma di cui non conosceva ancora le profonde diramazioni. Due immagini, una opaca e l’altra trasparente, che ne Il traditore hanno come momenti corrispettivi il maxi-processo e il processo a Giulio Andreotti (Pippo Di Marca), tra i quali si situa l’uccisione di Giovanni Falcone (Fausto Russo Alesi).
Ai toni da farsa tragicomica del maxi-processo corrisponde la parte più epidermica del morbo, quella Cosa nostra di cui solo da allora si scoprì l’organizzazione piramidale ma ancora legata a un immaginario brutale, animalesco, concrezione di un incubo sociale ad occhi aperti. La breve scena del processo ad Andreotti, priva di effetti deformanti, corrisponde invece a ciò che non vediamo nel film e a cui si allude appena: l’assimilazione del morbo da parte di uno Stato già da tempo imputridito, l’impossibilità di far luce in tempi utili su fatti che – come nel 1984 il vero Buscetta disse a Falcone – l’Italia non era ancora pronta ad accettare. Il corpo di Andreotti, corpo-Stato che dapprima pensiamo di poter sottoporre a una spoliazione, quando Bellocchio ce lo mostra letteralmente in mutande, si ripresenta invece anni dopo al processo nella sua silenziosa impenetrabilità. Immagine di un Potere sfingeo, il senatore non parla, rispondendo alle accuse di Buscetta solo per bocca del proprio avvocato.
Seguito ideale di Buongiorno, notte, Il traditore continua il racconto del nostro Paese laddove il capolavoro sul caso Moro si interrompe, con quel finale dolorosamente immaginato che restituisce la portata simbolica di un evento oltre cui, dice chiaramente il titolo, si estendono le ombre di un Paese che non sarà più come prima. Entrambi i film riguardano un momento epocale della nostra storia recente, entrambi si imperniano su una frattura insanabile e sulla necessità di riattivare l’immaginario prodotto da quegli eventi per interrogarci sul nostro presente. All’immagine di questa frattura, corrisponde allora la figura doppia (come doppio è il titolo del film) di Tommaso Buscetta, sempre definito da termini binomiali – boss dei due mondi era del resto il suo soprannome -, baluardo del vecchio codice d’onore mafioso e al tempo stesso figura che determina con le sue dichiarazioni la clamorosa fine di un’epoca, conservatore e rivoluzionario, boss e soldato semplice, eroe e opportunista, figura comica e tragica. Uno straordinario Favino mette al servizio del personaggio tutto il proprio talento mimetico, a cominciare dalla notevole capacità di assimilazione linguistica dell’attore che trasforma il Buscetta di Bellocchio in una spugna vivente (parla siciliano, portoghese, inglese e italiano). Una figura camaleontica che, scandagliata, psicanalizzata, continua comunque a interrogarci col suo mistero, mettendo l’Italia di fronte a quell’attitudine criminale che sembra scritta nel codice genetico del Paese.
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ottima recensione ed analisi che condivido. Sia qui, sia per Esterno notte.