
Romeo Castellucci e la percezione dello sguardo: Schwanengesang D744
Che cos’è guardare? Romeo Castellucci torna al Teatro dell’Arte di Milano con Schwanengesang D744. Fino a che punto si può essere consapevoli della scelta di guardare e degli effetti che questo gesto determinerà? Esiste la possibilità di sottrarsi allo sguardo dell’altro uscendo di scena? Come fare ad abbandonare il palco dopo aver proclamato la propria crisi? Paradossalmente a porci questi interrogativi è un’opera musicale realizzata a partire da una raccolta di undici Lieder di Schubert. Tra questi il “Canto del cigno” che dà titolo all’opera.
Regista, autore, creatore dei costumi, delle scene, delle luci e dei suoni, Romeo Castellucci da sempre propone un teatro fondato sulla sperimentazione e sulla totalità delle arti. L’esordio di una carriera quasi quarantennale che l’ha reso uno dei regista italiano di teatro più apprezzato al mondo, è la nascita della compagnia teatrale Socìetas Raffaello Sanzio fondata nel 1981 con Claudia Castellucci, Chiara Guidi e Paolo Guidi.
Apprezzata in tutto il mondo per il suo carattere radicalmente sperimentale, questa compagnia dà vita a un’idea di teatro che crea i presupposti per un’esperienza totale sviluppata a partire da una riflessione sull’immagine, sul linguaggio e sul suono. Con la Socìetas Raffaello Sanzio Romeo Castellucci ha ottenuto numerosi riconoscimenti (tra cui quattro premi Ubu) e il titolo di Chevalier des arts et des lettres dal ministero della cultura francese (2002).
Nel 2006 – in seguito alla direzione della Biennale Teatro di Venezia – ha intrapreso un percorso individuale. Nel 2013 ha ricevuto il Leone d’oro alla carriera dalla Biennale di Venezia e l’anno successivo il Festival d’Automne di Parigi gli ha dedicato il “Portrait Biennale”: è nell’ambito di questo progetto che viene presentato per la prima volta Schwanengesang D744.
La componente sonora e musicale ha un ruolo centrale nel teatro di Castellucci che elabora soluzioni inedite anche grazie a una lunga collaborazione con il compositore statunitense Scott Gibbons. Dopo essersi confrontato con l’opera di Monteverdi, Wagner, Stravinskij e Schönberg, il regista cesenate porta in scena le melodie di Schubert inserendole in un meccanismo di visione unico che ribalta il punto di vista.
A dare voce alla partitura musicale di Schwanengesang D744 è il soprano Kerstin Avemo – sola e statuaria sulla scena – accompagnata dalle note del pianista Alain Franco. La voce limpida della cantante fa risuonare la cavità del teatro immersa nell’oscurità e immediatamente colpisce la rigorosa immobilità del corpo da cui ha origine l’avvolgente melodia, contratto nello sforzo di non abbandonarsi al canto e disposto a concedersi solo pochi movimenti di repertorio. Sulla scena sembra palesarsi ciò che maggiormente dista dal concetto di “umano”: la ragione separata definitivamente dalla sensibilità corporea in un’incessante lotta tra la rigorosa geometria della scrittura musicale e l’inevitabile tendenza all’immedesimazione nel racconto a cui si dà voce.
L’atteggiamento della cantante però cambia progressivamente da un Lied all’altro e la sua presenza di fronte al pubblico si articola in una successione di microgesti che caricano di significato l’esecuzione e i lunghi momenti di assordate silenzio che scandiscono la successione dei Lieder. I mutamenti sono inizialmente minimi e impercettibili, ma il loro effetto successivamente si traduce in un totale cambiamento della disposizione della cantante: da esecutrice asettica nella sua perfezione tecnica, a persona intimamente scossa dal racconto di solitudine e abbandono a cui dà corpo e che la rende inevitabilmente esposta. Si palesa così il paradosso dell’attrice-cantante che è assimilabile a una macchina in quanto pura funzione ed è al tempo stesso puro essere come l’animale.
L’esecuzione canora si carica di tensione, il suono introduce un mondo latente la visione dando forma ad entità non immediatamente percepibili, fino a raggiungere un punto di saturazione. Si crea un’atmosfera di angoscia e il suono diventa preludio a un sovvertimento.
Il turbamento prende il sopravvento e sfocia nel pianto che sembra rendere impossibile la prosecuzione dell’esibizione. Per continuare la cantante non può far altro che cercare di sottrarsi a quegli sguardi da cui si sente fraintesa e minacciata: volta la schiena al pubblico e successivamente si allontana dal proscenio rifugiandosi nell’oscurità fino a raggiungere il fondale. Ed è qui che l’esibizione canora si conclude, lasciando la cantante, ormai accasciata contro la parete, sospesa in una condizione terminale di assenza di parola che la vede comunque esposta alla vista altrui e incapace di abbandonare la scena.
Il teatro è dunque il luogo di una visione complessa, ma essa non si identifica necessariamente solo con ciò che viene offerto alla nostra vista: la dimensione uditiva diventa fondamentale per evocare situazioni latenti e non immediatamente percepibili, è il trionfo dell’immagine sonora che palesa tutta la propria potenza drammaturgica. Cambia il meccanismo di percezione e lo statuto dell’immagine viene sovvertito. Niente è semplicemente dato allo sguardo, la visione si origina da un incessante processo di negoziazione.
Che cosa sto guardando? Che cosa fa risuonare in me questa visione?
Più volte Romeo Castellucci ritorna su questo punto nella propria sperimentazione teatrale. La sfida posta allo spettatore è radicale: riesce ad essere davvero responsabile dell’atto di guardare e della scelta delle immagini che questo gesto presuppone? Lo sguardo non è mai innocente – come ci insegna già il mito di Orfeo e Euridice – e Castellucci ne esamina il grande potere metamorfico.
La cantante di Schwanengesang D744, inizialmente glaciale nella sua imperturbabilità, mostra ora tutta la propria fragilità, e – sopraffatta dal dolore e dalla rabbia – urla contro il pubblico tutta la propria disperazione «Via, Assassini…» e ancora «Cosa volete? Andate a farvi fottere con la vostra voglia di guardare!». Uscire di scena dopo aver manifestato in maniera così autentica la propria crisi sembra impossibile. La cantante inizia così a “disfare” la scena su cui si è esibita tirando verso di sé il telo nero che ricopre il palco, per un istante c’è un cortocircuito sonoro e visivo: il pubblico è investito da un rumore assordante e in una luce abbacinante intravede la sagoma della cantante trasfigurata. Poco dopo lo strazio ha termine, la cantante trascina davanti sé una porzione di telo grande abbastanza per ricoprirsi completamente e, finalmente, sottrarsi agli sguardi.
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