
Intervista a Gianni Plazzi – Quella volta che Willem Dafoe…
Amato da Romeo Castellucci, stimato da Marco Martinelli, Gianni Plazzi è un attore unico nel suo genere che ha fatto la storia sia della Socìetas Raffello Sanzio che del Teatro delle Albe: anche scenografo e pittore, colpisce per la sua incredibile presenza scenica e la capacità performativa. In questa intervista, l’attore si racconta, svelando alcuni retroscena della sua longeva, ma anche insolita carriera teatrale.
Si ringrazia Rebecca Diana Ricciolo per il gentile e prezioso contributo nell’ideazione e nella progettazione dell’intervista.
Buongiorno Gianni, grazie per averci concesso questa intervista. Per cominciare, vorrei chiederti come è nata la tua passione per la recitazione.
Mi sorprende che tu me lo chieda. Io non sono un attore. Ho fatto molte cose, ma non mi sento un attore.
Perché dici così?
Perché l’attore è tutt’altra cosa. Sono stato molto fortunato nella mia vita, perché, se devo dire la verità, mi si è aperto un mondo molto diverso da quello che mi apparteneva. Ero un artista. Ho studiato scultura, pittura, incisione. È ovvio che queste tecniche abbiano avuto un’importanza nella mia vita da attore, ma l’interesse originario era rivolto da tutt’altra parte. Mi ricordo che il mio insegnante, il professor Folli, con cui avevo un certo feeling, mi disse negli ultimi giorni della sua vita: “A Marac mand, vo an lasì la pitura, parché avì e culor in t’è sang.”, che tradotto in italiano significa: “Mi raccomando, non lasciare la pittura, perché hai il colore nel sangue.” Questa frase mi ha seguito nella mia vita artistica. Ho sempre avuto un’altissima considerazione del colore e lui ha seguito me. Ho lavorato con Marco Martinelli ed Ermanna Montanari, quando facevano parte di un altro gruppo teatrale. Poi vollero fare del teatro indipendente e io ho continuato a lavorare insieme a loro. Era un ambiente molto interessante. Ho sempre creduto in loro perché avevano una marcia in più.
Quando hai deciso di dedicarti propriamente alla recitazione?
La recitazione è stata una conseguenza. Il colore è stato la guida indicativa per ciò che mi interessava. Ero un giovane sognatore e mi sento ancora tale. Il colore mi ha spinto a trovare il teatro. A livello di scenografia, ho lavorato molto con il Teatro delle Albe e la recitazione si è avvicinata al mio modo di essere. Non ho mai abbandonato la pittura, l’ho seguita in un modo diverso. Però, quello che mi è piaciuto di più è proprio l’essermi sentito una tessera in un mosaico. Ed è proprio questo insieme di colori che mi ha sempre sostenuto e spronato per ottenere qualcosa che andasse oltre me stesso, oltre a quello che io pensavo di poter essere. Quindi l’importante per me è essere stato qualcosa di più grande, per arrivare a un piccolo risultato. Da lì ho lavorato con la Non scuola per nove anni, facendo da guida, insieme a tantissimi altri attori.
Per te, quindi, nel teatro prevale la dimensione visiva?
«Sì. Ecco perché poi sono venuto a contatto con Romeo Castellucci. Io lo conoscevo grazie ai suoi spettacoli. Il teatro di Romeo era un teatro di Visione, diverso da tutti gli altri, paradossalmente molto più vicino al cinema di Fellini e io ero innamorato di Fellini. Quindi quando Romeo si avvicinò a me, attraverso la figura di Gilda Biasini, io mi sentii mancare. Ci incontrammo alla Socìetas di Cesena e Romeo mi disse che voleva fare uno spettacolo con me. Io mi resi disponibile. Dovevamo mettere in scena l’ultimo episodio della tragedia Endogonidia, a Cesena. Ogni episodio di questo spettacolo, tratto dalla tragedia greca, si svolgeva nella città che promuoveva il progetto. Era uno spettacolo diviso in due parti, servivano due teatri, perciò era molto difficile da realizzare. Lo spettacolo andò bene e ci fu subito un certo feeling fra me e Romeo. Parlavamo molto di pittura, perché il suo teatro è una pittura vivente. In questo episodio, in particolare, voleva delle immagini con delle forme plastiche e io ero fissato con Piero della Francesca, specialmente con il Polittico della Misericordia. Gli suggerii quindi quattro immagini da utilizzare e una di queste poi fu riutilizzata per il suo Inferno, Quell’immagine era il Cristo che risorge dal Sepolcro.»
E cosa ti disse Romeo a fine spettacolo?
Mi disse che avremmo fatto un cammino insieme e così è stato. Lui ha sempre avuto una grande fiducia in me ed è una cosa che mi porto dentro. Abbiamo fatto molto in quindici anni. C’era alla base una fiducia completa, trasversale, reciproca.
Come è nato invece lo spettacolo Sul concetto del volto nel figlio di Dio?
Romeo mi propose di fare una performance che sarebbe morta sul nascere, sarebbe stata irripetibile. Era un lavoro molto particolare in cui io ero un vecchio incontinente curato dal figlio. Una performance che, come nasce, finisce. Quello spettacolo era Sul concetto del volto nel figlio di Dio. Rimase in piedi tanti anni, con miriadi di repliche, girando tutto il mondo. Fu lo zoccolo duro della Socìetas. Ci furono difficoltà oggettive col pubblico e con gli altri teatri in merito a questo spettacolo, ma rimane il lavoro principale di Romeo. Io fui solo il suo strumento.
Cosa ti ha colpito di più di questo spettacolo?
Lo spettacolo fece un’escalation clamorosa, tanto da arrivare a un modo diverso di rappresentare la santità. Ricordo ancora questo grande ritratto, alto oltre settanta metri, di Antonello da Messina, stagliarsi sullo sfondo, mentre dei ventilatori enormi nascosti nel buio creavano un vortice impetuoso. Avevi il terrore che ti nasceva dentro. Poi compariva di nuovo, si alzava e lo vedevi martoriato, mentre veniva bombardato. Diventò molto famoso, da ricordare…Rimase addosso a tutti noi.
Cosa ti disse Romeo in merito a questo spettacolo, dopo tanti anni che lo mettevate in scena?
Mi disse: “Gianni, è incredibile! So cos’è lo spettacolo, so com’è, ma quello che più mi ha coinvolto tutt’ora, in questo momento, dopo tanti anni, è aver visto lo spettacolo fatto da te come se fosse stata la prima volta. Ci si aspetta che le cose fatte e rifatte diventino usuali, e invece no, è come se lo avessi visto la prima volta. Tu sei tanto bravo e io mi sono messo a piangere! Tu sei troppo importante per me e ogni volta che avrò bisogno di te ti chiamerò, perché la tua presenza mi dà sicurezza.”
Come è nato il Giulio Cesare invece?
Lui decise di fare il Giulio Cesare pensando a me, quando i sui altri spettacoli ebbero successo all’estero. Decise di fare un Giulio Cesare totalmente diverso, costruito su di me. Iniziammo a pensare allo spettacolo quando lui mi chiese di fare una camminata, dove in un certo momento i miei passi fossero diventati dei soffi di vento. Cosa vuol dire soffi di vento? È impossibile da dire. Ho cominciato a muovermi facendo dei fruscii e pian piano crebbe il personaggio, con un corpo, con un senso, con un volto, ma senza parole. Poi inventammo un gesto: era un Giulio Cesare che aveva detto, dato e fatto tutto, senza più niente da dire. Quindi non c’erano parole e, se non c’erano parole, c’erano solo gesti. Io immaginai un saluto. C’era un pubblico davanti a me, gli volevo bene, ma sapevo che qualcuno mi voleva male. Qualcuno mi voleva male, volevano uccidermi, c’era un complotto. Crescemmo piano piano con un discorso fatto di gesti, che comunicavano, senza voce, ma, nonostante questa assenza, riuscimmo a parlare. Quindi da uno spettacolo che comunica il dolore è nato questa performance che ha avuto una sua fisicità. Ebbe un grande successo lo spettacolo, lo chiesero per diversi anni e tutt’ora viene richiesto.
Qual è la differenza che hai notato fra il metodo di lavoro delle Albe e quello della Sanzio?
È una domanda molto difficile. Sono due mondi completamente diversi, anche se si parla dello stesso linguaggio, ma, se la Raffaello Sanzio è rivolta all’immagine e meno alla parola, le Albe, soprattutto Marco, danno l’importanza alla parola, chiara e pulita, che giustifica l’atto e l’azione. Sono due modi diversi di fare teatro, di comunicare, anche se il risultato arriva nella maniera più forte, più giusta, più violenta. Sono due mondi tangenti, ma il loro risultato è un’emozione fortissima.
Una piccola chicca che mi hanno raccontato: ho saputo che il Giulio Cesare ti ha permesso anche di incontrare Willem Dafoe. È successo davvero?
Sì, è vero. Eravamo a Wall Street, in un tempio circolare. Una sera Willem Dafoe con la moglie venne a congratularsi con me. Dopo lo spettacolo mi incontrò e mi disse che ne aveva visti tanti di Giulio Cesare, ma la particolarità di questo era imprevedibile e inusuale; perciò ne rimase molto colpito. Io rimasi di sasso: ricevere un complimento del genere da un grande attore come lui…
Che consiglio daresti ai ragazzi che vogliono intraprendere la carriera dell’attore?
La strada è lunga e dura, ma bisogna crederci. Le difficoltà sono tante, ma l’importante è crederci e studiare, non i testi, ma studiare per vivere questa passione. Il Teatro è la cosa più bella di questo mondo e la sua forza è enorme.
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