
The Crown: le prime due stagioni allo specchio
La prima sequenza: quanto pesa la corona
L’immagine della pesante corona cerimoniale sul capo di Elisabetta I (ancora solo Elisabetta per qualche giorno, nell’inquadratura) è immagine gemella di una delle scene che apre la prima stagione di The Crown: suo padre, quello che sarà ricordato poi come Re Giorgio VI, di fronte ad uno specchio con un’espressione di resa, osserva la sua figura ornata dal pesante oggetto che gli preme sul capo. Protagonista di entrambe le inquadrature non è né la debole e avvilita figura di Bertie né l’acerba figura di sua figlia, ma l’immobile e imponente – nei suoi grammi di oro e ottone – corona che entrambi indossano. The Crown, come per l’appunto il titolo suggerisce, non è un reportage ben fatto della famiglia reale inglese, di Elisabetta o di Bertie, ma della “regalità” che a questi è toccata, di una forma di sovranità incarnata che opera una quasi completa trasformazione sui corpi che investe, modellando con demiurgica minuzia i tratti esteriori ed interiori fino a fare della loro persona una creatura a-personale, una “corona umana” figlia di una lotta intestina tanto necessaria quanto amara.
La mano dietro la macchina
Già conosciuto per The Queen, 2006, Peter Morgan ritorna a indagare l’affascinante figura della più longeva sovrana inglese, abbandonando ancor di più il focus sulle sue vicende personalissime come regina e come madre – lo scandalo della morte di Lady Diana, nel lungometraggio – per farne un più ampio racconto della lotta tra vita pubblica e vita privata, tra la maternità e il governare, tra l’essere moglie e l’impossibilità di condividere il potere. Una scelta intelligente quella di Morgan che rende seducente un’istituzione invecchiata in un racconto seriale riuscito in ogni sua parte, a partire dall’accuratezza storica del prodotto, visibile tanto nella costruzione della narrazione quanto nella sua resa estetica, attentissima ai dettagli (dai cerimoniali ai più insignificanti oggetti di cui abbonda Buckingam Palace). Infine, un investimento fortunato firmato Netflix, costato alla piattaforma di distribuzione ben 130 milioni di dollari a stagione: il suo prodotto seriale più costoso.
L’atto di Dio e la parcellizzazione
Le prime due stagioni – che coprono gli anni dal matrimonio di Elisabetta (Claire Foy) con Filippo (Matt Smith) nel 1947 al 1964 – narrano quindi il lento insediamento della “corona” nelle vite di tutti gli abitanti del palazzo e di coloro che vi entrano in contatto, ma Elisabetta è l’unico personaggio su cui una vera trasformazione avrà luogo, una trasformazione a cui abbiamo accesso diretto, in primo luogo, esteticamente. Il lavoro sulla “rappresentazione” estetica degli elementi, tanto animati quanto inanimati, mostra perfettamente gli effetti “tangibili” di un mutamento operato da un potere “intangibile”. Un esempio di questo profondo meccanismo è il bellissimo episodio dell’incoronazione (Fumo negli occhi) dove la messa in onda sugli schermi di tutto il mondo della sacralità dell’evento è resa da Morgan attraverso la parcellizzazione della figura della regina (molto bello, inoltre, l’utilizzo di tutti i filmati originali): l’immagine di Elisabetta, moltiplicata all’infinito su ogni televisore conferisce alla sua figura un carattere “universale” senza precedenti (in molti sensi, dato che quella fu la prima incoronazione trasmessa in mondo visione).
Re Edoardo VIII, l’antitesi della corona
Elisabetta vive un rapporto estetico antitetico con gli altri personaggi della serie, un rapporto che oppone l’assoggettamento lento della sua figura alla “corona” alla resistenza della soggettività che gli altri invece operano. Suo zio, in primis (Re Edoardo VIII) è l’antitesi della corona stessa, simbolo di una soggettività completa, nel suo amore per Wallie Simpson. Il lottatore più estremo nella battaglia contro l’assoggettamento è anche simbolo del “vinto”, nel suo atto di abdicazione, la cui figura “eccede” nella forma, soprattutto emotivamente: nel linguaggio delle lettere inviate a Wallie, come nei nomignoli affibiati alla sua famiglia, così come nelle lacrime versate privatamente mentre suona la cornamusa, dopo aver assistito alla messa in onda dell’incoronazione della nipote.
Churchil è il suo ritratto
Il personaggio di Winston Churchill (John Lithgow, uno dei più riusciti) è a colpo d’occhio una figura esteticamente opposta ad Elisabetta, dove l’eccedenza corporea del Primo ministro sta tanto nello iato anagrafico con la neo regina, quanto in quello di maturità professionale. Ma la figura di Winston Churchill è soprattutto quella del “logoramento” nel corpo e nello spirito, nel suo ruolo politico. Churchill sembra aver esaurito da molto il suo tempo, così esprime il suo stato di senescenza, e così appare nel dipinto commissionato per il suo ottantesimo compleanno (Assassini).
Margaret, la mia gioia
Margaret (Vanessa Kirby) è invece la personificazione della “sovrabbondanza” femminile dell’individualità, non solo nella storia d’amore clandestina con il colonnello Townsend, ma soprattutto nell’abbigliamento, nei capelli, tutti trattamenti corporei a lei perfettamente aderenti e opposti alla composta sorella, il cui abbigliamento e la cui acconciatura sembrano scollarsi da una personalità tenuta a bada nell’ombra, e rispecchiarne il ruolo, più che la persona: “Elisabetta è il mio orgoglio, ma Margareth è la mia gioia” (le parole del padre sottolineate ad oltranza da Margareth nell’episodio Orgoglio e Gioia).
Filippo, storia di una decompressione
Alla misurata immagine della regina si oppone anche suo marito Filippo, la cui figura mostra i tratti di una “compressione” forzata, nel corpo e nello spirito. La seconda stagione si concentra molto sul coniuge reale e su un rapporto coniugale sull’orlo della deflagrazione. La compressione del personaggio di Filippo avviene per “sottrazione”: la perdita delle canoniche prerogative maschili, come marito e come padre, come il divieto di tramandare il proprio cognome ai figli, dettare le regole all’interno della casa, avere un lavoro che lo identifichi come “parte produttiva”; tutti elementi che annichiliscono la sua autonomia, provocandone, di conseguenza, una spinta sovversiva contraria. Nell’arco dei dieci episodi della seconda stagione, viene mostrato soprattutto il complesso d’inferiorità di Filippo e come la sua personalità sia sempre più un peso per la regina. Non a caso, il penultimo episodio (Pater familias) è interamente dedicato a un affresco dell’infanzia di Filippo, dalla fuga dalla Grecia fino alla reclusione in collegio, alla ricerca dell’orgoglio che ora è demolito e nel pieno di una ribellione infantile, orgoglio che il carattere del fragile Carlo non può nemmeno lontanamente ricostruire per sostituzione.
“La corona deve vincere, sempre”
“La corona deve vincere, sempre” diceva la regina Mary, e il matrimonio non può crollare. Elisabetta si confronta più volte con ritratti di coppie invidiabili (Gentile Si.ra Kennedy) o con donne libere di rompere i propri legami-zavorra con i mariti (Eileen Parker), ma è il senso del dovere verso il pesantissimo corpo del potere a sopravvivere sempre e comunque. Elisabetta rafforza quindi il suo polso e la sua capacità di controllo, venendo incontro a nuove crisi non solo matrimoniali (Suez e il Ghana). Elisabetta diventa lentamente “la corona” in un sottile “raffreddamento” dei modi e addirittura delle espressioni facciali, volto a farle perdere sempre più i suoi connotati individuali, ma nel frattempo contrapposto a momenti privati al limite della sopportazione, dove la percezione della propria autosufficienza come sovrana si affianca al proprio isolamento come persona.
La seconda stagione è prima, nessun problema.
Eppure questa seconda stagione, che ha tutte le qualità per rafforzare l’affascinante tensione che si crea fra sfera privata e sfera pubblica e il sinolo della corona, è più debole della prima. Alcuni episodi sono narrativamente più fragili, la scrittura si sgonfia, e in una serie storica, dove lo spoiler è intrinseco, una sceneggiatura non galoppante è esattamente il grande fantasma da scacciare. La regia, inoltre, che nella prima stagione era stata impeccabile, regalandoci un piccolo gioiello estetico e registico in ogni episodio (merita una particolare menzione l’episodio Atto di Dio), nella seconda perde vivacità e non tutti gli episodi lasciano traccia.
L’attesa della terza stagione di The Crown mette in qualche modo un punto alle prime due, data la particolarità del prodotto: di due in due, le sei stagioni della serie vedono cambiare gli interpreti dei personaggi e finiscono, in parte, per essere concepite come piccole opere separate. Rispolverare dunque il primo esemplare di un lavoro su cui abbondano le aspettative è un omaggio a due ottime stagioni, un congedo nostalgico ad un’impeccabile Claire Foy, in un mutamento estetico-attoriale, stavolta, della vecchia Elisabetta in quella del premio Oscar Olivia Colman.
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