
3% – Nessuna chance nella distopia
Ho già parlato due volte di 3%, serie Netflix di produzione brasiliana, creata da Pedro Aguilera. E l’ho fatto o in modi denigratori o per vie periferiche, come potesse essere solo un argomento tra tanti, significativo in virtù di e in relazione a. Ma giunti alla terza stagione percepisco la necessità di un discorso critico approfondito.
Siamo in Brasile, in una società almeno in parte post-apocalittica (perché il disastro sembra aver colpito le risorse energetiche, provocando povertà e non morte). Due sono i luoghi abitati dall’uomo: l’Entroterra e l’Offshore (su un’Isola). Ogni anno ha luogo un “Processo” dedicato ai diciottenni, una selezione del 3% della popolazione, quem merece, che possa ingrossare le fila dell’Offshore, ricco e tecnologicamente avanzato, abitato dalla crème de la crème della società, dai migliori (è un processo centenario). Ovviamente, in gioco non può che esserci una Causa, cioè un gruppo clandestino di sabotatori che riconosce la disuguaglianza del Processo e chiede la ridistribuzione della ricchezza e delle risorse, ma è aspramente inviso alla Divisione (l’Esercito) e alla Chiesa del Processo, venerante la “Coppia fondatrice” del luogo utopico. I protagonisti sono alcuni ragazzi maggiorenni, seguiti passo passo nell’impresa di raggiungere l’Utopia. La seconda stagione segue i personaggi che hanno raggiunto l’Offshore [Spoiler] – alcuni di loro, appartenenti alla Causa, vogliono distruggerlo. Michele, una di queste, interpretata da Bianca Comparato, grazie al possesso di dati sensibili, ottenuti nel recinto della spy story, ricatta l’Offshore, ottenendo viveri e tecnologie sufficienti a creare la Concha, una struttura nell’Entroterra in cui tutti sono i benvenuti, che possa costituire un’alternativa. Di qui la terza stagione. Michele ha agito anche per vendicare l’omicidio del terzo elemento dei Fondatori (è dunque un Trio e non una Coppia): l’omicidio rituale, da topos di lunga durata, si conferma come mito fondativo, che instaura una sovrapposizione di personalità, una sorte di reincarnazione etero-identitaria, di carattere etico, intesa come legittimazione (il “reato” le permette di assurgersi al compito di leader della Concha).
L’inferenza topica si deve a due coordinate o indizi, oltre che alla Produzione: 1) all’ambiente (cioè alla scenografia), prossimo all’immaginario occidentale delle favelas, in qualche modo istigato dalle pubblicità di vari marchi sportivi (il più famoso: Adidas) e da racconti indiretti, stereotipici di telegiornali e quotidiani, non esenti da un certo appiattimento direzione Terzo Mondo; 2) e alla lingua portoghese, decisamente riconoscibile e in certo qual modo ipnotica.[1]
Siamo in Brasile, e nel paese di Pixote (Héctor Babenco, 1980), di City Of God (Fernando Meirelles, 2002), di Cecità (Fernando Meirelles, 2008). Nonché di numerosi film distopici per vocazione o destino privato: se c’è l’idea, almeno illusa, di un’infanzia inaccettabile in quanto a diritti umani e se c’è l’idea del confino e dell’abbandono da parte delle istituzioni (di provocata e controllata anarchia). Distopici come 1984 (Michael Radford, 1984), Brasil (Terry Gilliam, 1985), In Time (Andrew Niccol, 2011), Snowpiercer (Bong Joon-ho, 2013) ed Elysium (Neill Blomkamp, 2013) – che fra l’altro propone una situazione di partenza profondamente analoga – ; e tanti altri (ma le menzioni non sono casuali). Per non dimenticare le istanze sotterranee di Altered Carbon (Laeta Kalogridis, 2018 – in corso), di cui sapremo di più a una seconda stagione.
Perché l’insistenza sul Brasile? Perché se nelle prime due stagioni l’adesione al genere distopico, con istanze politiche e sociali forti, sembrava dovuto a un’occasione creativa, cioè artistica, e non a una necessità dissentiva, con la terza stagione si manifesta, con tutta la sua forza, una volontà di aspra denuncia sociale. In che modo il cambio di paradigma? Lo spettatore, abituato alla frequentazione del genere – abituato a un certo tipo di risposta immaginativa alle condizioni del genere – è portato a considerarlo unicamente come prodotto afferente a un genere e in esso esaurientesi; il fatto è dovuto, forse, all’amnesia delle origini della fantascienza, identificabile proprio nell’istanza proiettiva del desiderio di una realtà altra, di un tempo altro che potesse accogliere la realizzazione del desiderio – in merito, si è parlato di fantascienza come genere dell’autocoscienza dei popoli; e di fantascienza come «trasformazione materiale o logica del reale conosciuto» (Harry Levin). L’esplicitazione del motivo socio-politico si attua nel momento in cui al gioco distopico della battaglia tra mondi si sostituisce l’appello alla costruzione di un’alternativa, che viola in un certo modo l’esigenza ritmica di una trama bellica e incalzante (nella quale però ricade, come si vedrà). In altre parole, meno monolitiche, se alle prime due stagioni l’impressione è che emergessero soprattutto i requisiti convenzionali del genere (ma non unicamente), alla terza stagione si afferma un’espressione originale, la messa in rilievo di un tema privilegiato.
E se è spesso abusato il sintagma “denuncia sociale”, spiegherò in breve perché sia qui pertinente, nonché essenziale.
[Spoiler, dei primi minuti della prima puntata] – La Concha viene danneggiata seriamente da una tempesta di sabbia, non rilevata dalla tecnologia, ma della quale l’Offshore e Marcela (capo del Processo) erano a conoscenza. Segue la proposta di questa a Michele, di un approvvigionamento e di assistenza per la riparazione, a patto di rendere la Concha una “filiale” dell’Offshore, gestita dalla Divisione e dedicata all’addestramento dei giovani al Processo. Michele rifiuta e – spinta dalla popolazione della sua struttura, ridotta alla fame – elabora una Selezione, del 10%, che possa essere imparziale e modello antitetico al processo, affinché i rimasti possano ricostruire la Concha e riaccogliere gli eliminati.
Della trama nulla più (già ampiamente percorsa), e con una premessa fondamentale: l’interpretazione contenutistica e politica che segue sembra spinta anche dalla rudimentale impalcatura stilistica, con banalismi registici e dei reparti tutti (forse eccetto quello degli sceneggiatori), operativi un po’ alla buona – come se il punto, appunto, fosse un altro.
Mi sembra evidente quale sia l’intentio originalis della serie, il “tema vitale”: la denuncia della irrimediabilità della situazione socio-politica contemporanea, se non solo brasiliana: mondiale, poiché la ricchezza, dati alla mano, è realmente a disposizione di una percentuale irrisoria, ancora inferiore: l’1% della popolazione (e cito perché la prossimità percentuale mi sembra indizio di ripresa). È la situazione di un «mondo globalizzato, sì, ma dis/parato, messo sotto il segno della frazione di un dominio che si vede come “fine della storia” e delle storie» (A. Gnisci)[2]. In che termini irrimediabilità? Le rivoluzioni sarebbero destinate al fallimento, perché sedotte dal compromesso o perché è il loro destino ineluttabile, al pari forse delle Avanguardie – come avvenne per l’Urinatoio di Duchamp o per l’Urlo di Ginzberg. Dissacrare da contenuto diviene contenitore, forma vuota e soprattutto innocua. Rivoluzione da gesto evolve in gestualità formulare. La Concha, nome che sembra un omaggio alla forma dell’Entroterra povero, diventa teatro del dramma (sineddochico) della Selezione, concernente il topos di lunga durata della lotta tra poveri: l’imparzialità è un’ideale irraggiungibile, persino l’illusione del sorteggio è insufficiente. Se non che, nell’immaginario, sembra dire malinconicamente la serie, il colpo di reni, il conato in extremis è possibile, e con essi la controffensiva, per la quale aspettiamo la quarta stagione.
Concludendo, se nell’apparato formale la serie risulta decisamente insufficiente, in sua sostituzione o in suo soccorso viene il tema, o meglio l’urgenza del tema: la denuncia sociale da cittadini di uno dei paesi più fortemente colpiti dalla contemporaneità, il Brasile, è persino coraggiosa, credo, a causa della degenerazione antidemocratica, del possibile e forse probabile esito militaristico, delle complesse vicende elettorali, degli scandali di corruzione, e non da ultima della grave e progressiva crisi economica che sta affliggendo il paese. Dunque, una serie che può dare un contributo, se non artistico, per lo meno alla cultura o al discorso culturale, e sociale e politico.
Dopo le note, la splendida colonna sonora: Bom Conselho di Maria Bethania.
[1] Se questo secondo rilievo può sembrare banale, in una logica non euro-centrica o comunque occidentale, il portoghese (brasiliano) utilizzato in un qualunque prodotto visuale dovrebbe essere per lo meno recepito al pari dell’inglese, lingua dello spettacolo e per questo (ma non del tutto) de-territorializzata, cioè non connotante un contesto socio-culturale a priori; o ancora: condizione non sufficiente alla deduzione da parte dello spettatore di certe coordinate spazio-temporali. [Nondimeno, precisando, il brasiliano è poco presente nell’immaginario occidentale, perciò potrebbe favorire una identificazione del tipo (2), indicata sopra].
[2] La citazione, da Letteratura comparata (Mondadori), vuole costituirsi come omaggio ad Armando Gnisci, professore dalla grande e militante forza critica, deceduto il 17 giugno scorso.
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