
Tribes of Europa – Una distopia finalmente europea per Netflix
Vi sarete senza dubbio chiesti perché ogni catastrofe, ogni fine del mondo avvenisse negli Stati Uniti. In ogni recente, e corretta, polemica sulla “rappresentanza” delle diversità nell’industria dell’audiovisivo non si fa menzione (condivisibilmente: perché non genera davvero un malessere, non istantaneo) di un problema trasversale: la leadership degli States nell’immaginario, di ogni cittadino di ogni stato. Avessi gli strumenti della sociologia, potessi adoperarli, cercherei di verificare se questo accentramento significhi mimesis o diegesis, usando male i termini e senza scomodare Aristotele. Voglio tirarli in ballo in questo senso: il monopolio dell’industria culturale, dell’intrattenimento, ha portato e porta a un desiderio (conscio o inconsapevole) di imitazione del modello o di “racconto” del modello, di narrativizzazione, quindi di deroga? Non posso deporre per alcuna ipotesi. Sono noti i risultati dell’industria hollywoodiana sul costume, sulla cultura europea, in quella particolare forma marshalliana di influenza durante tutto lo scorso secolo. Però adesso è un condizionamento non manifesto né subdolo ma naturale perché noi, spettatori, scegliamo spontaneamente la grammatica americana, i suoi moduli, i suoi stilemi, siamo ormai abituati e neanche più sopportiamo (o sopportiamo sempre meno) l’addomesticamento, attraverso per esempio il doppiaggio. Fine preambolo: per dire cosa? La nuova serie Netflix – avvalsasi dei produttori di Dark e con showrunner Philip Koch – Tribes of Europa, fin da titolo, mette in campo nuove pedine nel Risiko, nuovi obiettivi, cioè raccontare un mondo postapocalittico dal punto di vista europeo.

Siamo nel 2074, mezzo secolo dopo un blackout mondiale durato un mese, il “black december”, che ha decretato la fine della società umana, dell’aggettivo “globale” (interessante la poligenesi del tema, considerando l’ultimo libro di Don DeLillo, Il silenzio). Dalla sorta di guerra civile su scala mondiale sorgono delle tribù, una nuova definizione pseudofreudiana per indicare realtà molto eterogenee fra di loro, stati militari, oligarchie, civiltà neoprecoloniali. Il punto, banale ma non troppo, è che sul fronte tedesco (corsi e ricorsi) le due più grandi tribù funzionano fino a prova contraria come il male e il bene: da un lato la personificazione di tutti i mali, i Corvi, su cui pesano i grandi gerarchi – non solo Hitler, Mussolini, Stalin ma soprattutto Luigi XIV (nella performance giornaliera che lo divinizza, nell’idea di paese in quanto corte, Berlino come Versailles) -; dall’altro la personificazione, apparente aggiungo io, di tutti i beni, erede di una linea anglosassone, erede della EUFOR, il corpo militare europeo. Una forza imperialista contro una forza pacifista: sappiamo, dalla storia recentissima, quanto possano essere la medesima cosa.
Per tutta la prima stagione, nella distopia non c’è spazio per l’occidente estremo, per l’America: solo l’Europa sul piatto, e allo spettatore pare una meraviglia, un fantastico ritorno per accelerazione agli epos, alla centralità del racconto medievale e moderno. Quasi commovente lo switch linguistico tra tedesco e varietà, francese, inglese, italiano anche, alla radio!, e qualche mescolanza verso la neolingua. Di più: l’America viene sostituita, sembra, rimossa per far spazio ad Atlantide – per la caduta di un aereo atlantideo si avvia il domino -: il mito che, menzionato per la prima volta da Platone, già nel Cinquecento è la meta eufemistica, prodromo di Eldorado nonostante le diversità (sarà un caso che i due cartoni animati nella mia testa si sovrappongono continuamente?). Età dell’oro no; più utopia tecnologica, separazione dal mondo che significa libera crescita pacifica, ideale presente nel mondo, ideale possibile. Interessante che il tutto cominci nel cuore di una foresta che è casa degli Origines, una minuscola tribù (misconosciuta dalla maggioranza) di cinquanta individui che per sopravvivere hanno scelto il plus intra e non il plus ultra, l’abbandono delle tecnologie della vecchia civiltà per un ritorno alla natura, in “armonia”.
Il cambio del punto di vista è forse la grande e unica novità della serie, in realtà tutto sommato modellata su tante postapocalissi di matrice americana. Comunque piacevole, con una trama avvincente e soprattutto ben giocata su un misto di suspense e sorpresa. Non aver prediletto una delle due strategie permette piacevoli interruzioni nella prevedibilità, quando le serie – saranno d’accordo i frequentatori più accaniti – oramai sembrano scritte tutte ugualmente. Interessante il trattamento di violenza e sesso, poli indiscutibili nell’orbita delle industrie futuristiche, qui però in una maniera tutt’altro che euforica, eccedente. Il fetish e l’oltranzismo sono naturali degenerazioni, già tradizionali. Eccellente la scelta degli attori, soprattutto dei protagonisti Kiano (Emilio Sakraia) e Liv (Henriette Confurius), così delle location (per lo più in Germania) e più in generale di caratterizzazioni di ambienti ed esistenti.
Per concludere, Tribes of Europa è una boccata d’aria fresca. Una serie che ha tutto ancora da provare, sperando in una seconda stagione meno sospettosa delle proprie capacità – questo sì: nonostante gli ottimi punti mi è sembrato che tenessero il freno a mano, probabilmente per rimanere sul sicuro, una sorta di correlativo metaforico della politica europea (o piuttosto, per essere clementi, una diretta conseguenza della produzione Netflix..
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