
Intervista a Lorenzo Gleijeses – Le latitudini del corpo
Abbiamo avuto l’occasione di intervistare Lorenzo Gleijeses, premio Ubu come Nuovo attore nel 2006 e interprete e co-regista di Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa, unica regia di Eugenio Barba al di fuori dell’Odin Teatret.
Il lavoro si origina dal progetto 58° Parallelo Nord, un cantiere teatrale che nasce dalla volontà di riunire in un unico contesto maestranze teatrali molto diverse fra loro per la creazione di un unico opera. Il confronto che ne è scaturito ha portato, in ultimo, alla creazione di due opere differenti, pur a partire dallo stesso materiale: da un lato proprio Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa, diretto da Lorenzo Gleijeses, Eugenio Barba e Julia Varley, per la drammaturgia di Chiara Lagani (fondatrice della compagnia Fanny & Alexander); dall’altro di Corcovado, per la regia di Luigi De Angelis (anch’egli fondatore della compagnia Fanny & Alexander) e coreografia di Michele Di Stefano (compagnia MK).
I due lavori, che ancora purtroppo non sono stati presentati insieme a causa dell’emergenza pandemica, palesano concretamente le differenze – di stile, composizione ed ispirazione – che intercorrono fra i gruppi teatrali nati negli anni Sessanta e quelli sorti negli anni Novanta.
In attesa di poter vedere questo dittico in scena, abbiamo colto l’occasione per parlare con Lorenzo del percorso che ha portato a questo risultato, ma anche della sua formazione e delle condizioni in cui versa il teatro in questo difficile periodo.

Per iniziare mi pare inevitabile chiederti: come stai? Come vivi questo lungo anno di stop?
Sto bene, compatibilmente con la situazione così difficile. Sono in una fase della vita particolare; è nata da cinque mesi la mia seconda figlia, ma è complicato, in questa congiuntura, non avere pensieri negativi. Mi manca il lavoro, infatti continuo a provare quasi tutti i giorni. È un modo per non sentire totalmente il distacco dallo spazio scenico e per continuare il mio percorso, ma ad un certo punto ti rendi conto di far finta che vada tutto bene. In alcuni momenti mi manca il mondo di prima, per quanto fosse malconcio e oggetto di critiche da parte mia, in altri invece sono più serafico e lo accetto di buon grado.
Hai lavorato in tantissimi ambiti diversi, ma ad un certo punto ti sei avvicinato al mondo della danza e al teatro fisico. Come sei approdato a questi ambienti?
Ho iniziato a fare teatro con mio padre (Geppy Gleijeses, ndr), che mi a messo in scena a nove anni. Fino ai diciotto anni ho fatto con lui cinque o sei spettacoli. Li ho sempre affrontati come un gioco e senza ansie. Intorno a me gli altri si emozionavano, sentivano su di loro lo sguardo del pubblico, mentre io non pensavo ad eccellere, non pensavo che fosse la mia professione.
Da una parte ho potuto iniziare giocando, ma capii subito, guardandomi intorno, che tipo di abnegazione serva per fare l’attore: si trattava di un gioco serissimo per cui è necessario fare rinunce. Da bambino ho potuto lavorare con grandi registi, tra gli altri Squarzina, Guicciardini e Pugliese: mi permettevano di giocare in scena, ma pretendevano anche una ferrea disciplina.
A diciotto anni mi si è presentata la domanda sul mio percorso futuro. Volevo provare a fare il regista e sono andato a studiare al DAMS di Bologna, sperando di potermi arricchire di un buon bagaglio di conoscenze. Intanto, però, la vita sceglieva per me, perché sono stato chiamato per recitare in un film e in diversi spettacoli. Così ho iniziato a capire che la mia vita sarebbe stata sul palcoscenico. Ma mi rendevo conto di essere giudicato soltanto in quanto figlio di mio padre, senza che si valutassero le mie capacità. Questo giudizio era come un tarlo che scavava la sicurezza che avrebbe dovuto sostanziare la mia presenza scenica e ogni mia azione. È un pensiero che mina il processo psicofisico dell’attore. Ho capito che se volevo fare l’attore dovevo crearmi un bagaglio di conoscenze in contesti che non avessero nulla a che fare con mio padre, per non sentirmi un raccomandato, una copia sbiadita di qualcun altro. Non volevo che la mia preparazione si rifacesse ad un’unica sorgente; sarebbe stato un modo molto povero di essere figlio d’arte.
È molto difficile non essere un surrogato di qualcun altro, quando si è figli d’arte; molti si emancipano e guadagnano sicurezza solo anni dopo la morte del genitore.
Per me è stata invece una separazione simbolica: sono partito e sono andato a studiare all’estero.
L’ho fatto anche perché in quel momento non mi interessavano gli spettacoli ufficiali e il tipo di lavoro che mio padre poteva offrirmi: non ero un attore formato e non avrei potuto aspirare ad interpretare ruoli importanti. Lui si rendeva conto che fossi portato, ma ero un ragazzo che muoveva i suoi primi passi, e io per primo sapevo di poter sostenere solo delle parti marginali nel teatro tradizionale. Non era quello che volevo.
Mi sono concentrato sui miei progetti e su cose che stimolassero il mio interesse. E per poter crescere e trovare una scuola dovevo andare via dall’Italia, dagli ambiti dove conoscevano mio padre. Non volevo correre il rischio di essere accettato, o anche criticato, solo perché ero “figlio di”.
Insomma, ho iniziato a formarmi con vari maestri e avevo la faccia tosta di propormi per lavorare con loro. In questo il contesto in cui sono cresciuto ha aiutato, perché non mitizzavo il mondo teatrale e non mi sembrava irraggiungibile e assurda l’idea di creare progetti insieme a dei professionisti.
A vent’anni, dopo un seminario particolarmente emozionante con Julia Varley (attrice dell’Odin Teatret, ndr), le ho chiesto di fare uno spettacolo insieme. Lei acconsentì, ma a patto che mi adeguassi ai suoi impegni e fossi pronto a dedicarmi al progetto anche tre o quattro anni prima di poter andare in scena.
Sono iniziati così cinque anni in cui, in verità, non abbiamo solo costruito lo spettacolo; Julia mi ha soprattutto preparato e formato perché diventassi un attore solido, capace di sostenere una solo performance; è stato un apprendistato importantissimo.

Lei ha cambiato il mio approccio e il mio rapporto con il corpo: all’interno dell’Odin Teatret ha grande importanza il lavoro fisico. Sono sempre stato uno sportivo, ma non si trattava della stessa sensibilità di movimento.
Con Julia ho iniziato ad avere una quotidianità nel lavoro fisico, fino al momento in cui ne ho sentito io stesso la necessità. Ora quando non lavoro fisicamente sono meno lucido e più nervoso, ne risente il mio equilibrio psicologico.
Da lì ho iniziato a incontrare dei coreografi anche molti diversi fra loro.
Il primo di cui mi sono innamorato è stato Augusto Omolù, che è danzatore e attore dell’Odin Teatret. Per me è stato uno shock vederlo danzare in uno spettacolo diretto da Eugenio Barba; è stata una delle esperienze più forti della mia vita. Ho pensato: non è un uomo, è un dio. Lui nasce a Salvador de Bahia e si inserisce nella tradizione del Candomblé, una religione afrobrasiliana, evoluzione dei culti animisti africani. Ogni divinità (Orixà) del loro pantheon ha una sua danza specifica, che si rifà all’elemento naturale che quella divinità incarna.
Mentre lavoravo allo spettacolo che sarebbe diventato Il figlio di Gertrude, Julia ha deciso di inserire la danza di Jansã, l’Orixà del vento. Mi ha quindi mandato da Augusto, che me l’ha insegnata.
Finita questa esperienza eravamo diventati molto amici e ho deciso di seguirlo in Brasile perché mi ero innamorato delle danze del Candomblé e volevo continuare a studiarle. Iniziai un percorso di apprendimento ed ebbi l’occasione di lavorare con i danzatori brasiliani. Loro avevano iniziato a praticare quelle danza fin da bambini e capii che erano capaci di movimenti a cui comunque non sarei potuto arrivare. Ma è stato un percorso ricco e bellissimo, che mi ha fatto confrontare con le difficoltà e i limiti del corpo.
In un secondo momento ho incontrato Michele Di Stefano e la sua compagnia MK. Si trattava di un contesto e di un lavoro totalmente diversi; ci faceva muovere nello spazio sviluppando gli impulsi ritmici di musica elettroniche. Ho scoperto che la danza può essere anche solo un modo di camminare nello spazio. Ho iniziato a mettere a punto il mio allenamento a partire dal seminario con Michele. Chiaramente era una mia elaborazione a partire da un’ispirazione. In quel periodo mi tornavano in mente le parole di Eugenio Barba: ci diceva di non avere paura di imitare, perché l’imitazione è un trampolino verso qualcosa di personale, verso una visione che, lavorata poi secondo principi propri, diventa una creazione individuale. Ho continuato a lavorare con Michele, ma anche con Biagio Caravano, danzatore e cofondatore della compagnia, per imparare e per cercare di capire come applicare ai miei progetti quello che stavo toccando con mano e sperimentando.

A partire dallo stesso materiale coreografico nascono Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa, per la regia di Eugenio Barba e Julia Varley, e Corcovado, in cui sei invece diretto da Luigi De Angelis e Michele Di Stefano. In genere, parti sempre dal corpo per iniziare a lavorare?
Alla fine sì, non perché penso che si possa partire solo dal corpo, ma perché è il tipo di lavoro che più mi attrae e stimola. Ormai non posso fare a meno del lavoro fisico. Per me è più facile e stimolante pensare ad un lavoro che parta dal corpo e ho la necessità di sfogarlo e di muoverlo.
Devo dire che a volte mi capita che l’ispirazione non nasca direttamente dal corpo, ma magari da un testo. Ogni spettacolo è un avvenimento a sé anche per come nasce e cresce. Per Eugenio è fondamentale differenziare l’approccio a ogni spettacolo: se prima hai lavorato in uno spazio quadrato, poi ti troverai, ad esempio, a lavorare su una linea di dieci metri. Lui sceglie volontariamente di ribaltare lo spazio scenico ad ogni allestimento, così da evitare che gli attori si limitino ad abitarne una sola tipologia e che le loro abilità si cristallizzino in vezzi. In generale Eugenio usa questa strategia di stravolgere il “campo da gioco” in tutti gli ambiti: per ciò che concerne drammaturgia, costumi, scene e collaborazioni. L’attore che impara a superare ostacoli diversi fra loro sarà più versatile, avrà un bagaglio artistico composito.
Nel caso di Gregorio ho elaborato con Michele alcune azioni fisiche che abbiamo chiamato preghiere. Quando le ho mostrate ad Eugenio, la loro ripetitività e monotonia gli hanno suggerito l’immagine di uno scarafaggio e mi ha proposto di lavorare su Kafka.
E come si è sviluppato il processo creativo? Come si sceglie il materiale che andrà a comporre l’opera? Quando il percorso dura anni, come si capisce che si è arrivati alla fine e che si è pronti per la scena?
Tutto il lavoro è una continua dialettica. Eugenio mi ha proposto il tema centrale e una struttura, ma io da attore e co-regista sceglievo, tra le sue suggestioni, quelle che mi interessava seguire e le rielaboravo. Con Eugenio sei libero di scegliere, di farti attrarre in alcune direzioni e non verso altre.
All’inizio non mi interessava lavorare su Kafka, ma ho pensato che fosse dovuto al fatto che lo conoscevo poco. Ho studiato la sua opera completa ed è chiaro che, quando leggi un genio di quel livello, non puoi che trovare qualcosa che ti tocca e quindi vuoi approfondire.
Quando ho visto lo spettacolo ho avuto l’impressione che in scena ci fosse sì un personaggio, ma che fosse al contempo un lavoro molto personale.
Ho incontrato molti materiali che mi interessavano e attivavano, che mi facevano venir voglia di andare in sala e lavorare. Quando ho letto le Lettere al padre, non ho potuto non percepire delle attinenze con alcune discussioni che io ho avuto con mio padre, chiaramente con tutti i distinguo e le differenze di contesto e personalità. Kafka, quelle lettere, non le spedì mai, mentre io non ho mai avuto remore ad esprimere il mio punto di vista e a confrontarmi con mio padre. Però riuscivo a capire quei sentimenti, li avevo, in qualche modo, toccati.

Forse la bellezza sta proprio nel confronto che porta con sé la consapevolezza di un divario, in modo che non si arrivi ad un appiattimento, ad un’imitazione dell’originale: prendere ispirazione per parlare di te.
È questo il punto. Diventa una dialettica fra le mie proposte e la direzione di Eugenio. Sarà lui a decidere cosa tenere e cosa abbandonare. La sua libertà è avere l’ultima parola su ciò che sarà montato nello spettacolo, ma allo stesso tempo concede una grande indipendenza all’attore: non ti dirà mai che non puoi fare qualcosa e non ti chiederà perché hai fatto una scelta piuttosto che un’altra. Fa delle scelte su cosa diverrà parte dello spettacolo, ma non giudica, non dice « è sbagliato».
Mi hai parlato di costole ed evoluzioni dello spettacolo. Qual è il tuo rapporto fra processo creativo ed opera conclusa? Come si sono formate queste evoluzioni?
Da una parte c’è il lavoro su Gregorio. Per Eugenio, Julia e me quando lo spettacolo debutta significa che è nato, che non subirà ulteriori modifiche. Ma il materiale e la ricerca su quelle tematiche continuano, non si esauriscono nello spettacolo.
In più dalla stessa materia è nato anche Corcovado. Non mi era mai capitato di creare due lavori così diversi a partire dalle stesse basi. Credo sia un grande pregio, ma non vedo l’ora di poterli mostrare insieme e vedere le reazioni del pubblico. Il progetto 58° Parallelo Nord, da cui scaturiscono entrambe le opere, è uno studio applicato su come i gruppi degli anni Sessanta e i gruppi degli anni Novanta abbiano orizzonti, poetiche e cifre stilistiche ed espressive molto diverse, a volte addirittura opposte. Molto spesso l’opposizione non è stata casuale: si tratta di una reazione rispetto alla ricerca dei vent’anni precedenti; se prima si tendeva all’uso di luci naturali e di musiche esclusivamente dal vivo e non amplificate, poi si approda all’impiego di composizioni elettroacustiche, non melodiche, di luci alogene o al LED, e in generale di scenografie e costumi totalmente diversi.
In questo progetto è come se avessi messo il mio corpo e il mio lavoro fisico a fare da parabordo tra la visione di Eugenio e quella più postmoderna di De Angelis e Di Stefano; è stato uno studio sul campo su quanto e perché fossero diversi i loro orientamenti creativi. Ne sono nati due spettacoli costituiti dagli stessi oggetti coreografici, ma declinati in modo totalmente diverso dai due ensemble creativi che ne firmano le regie: le lettere (le azioni fisiche) che costituiscono la sintassi dei due spettacoli sono identiche, ma sono contenute in due formalizzazioni sceniche completamente differenti, sono gemelli eterozigoti.

Tornando, invece, al contesto attuale, come ti immagini il teatro che verrà con la riapertura e la fine dell’emergenza pandemica?
Se devo osservare il contesto italiano attuale, ciò che vedo agitarsi intorno al teatro è lontano da quello che immagino possa accadere alla fine dell’emergenza pandemica.
Credo che neanche a noi del settore sia ancora chiaro il portato di questa crisi per il teatro. Quando si potrà riaprire ci accorgeremo che non tutti riusciranno a farlo. E chi ci riuscirà dovrà ricominciare a produrre e, allo stesso tempo, dovrà gestire le perdite di più di un anno di chiusura. Eravamo già stritolati da un sistema incurante del lavoro creativo, attento solo a criteri quantitativi e di appartenenza piuttosto che alla qualità e al coraggio delle scelte.
Su questo sistema, in questo anno, mi pare che nessuno abbia saputo riflettere o migliorarlo e, ora, le limitazioni legate al fermo e ai numeri contingentati saranno inevitabilmente una penalizzazione per chi ha privilegiato la ricerca e le scelte ponderate rispetto ai numeri. La maggior parte dei teatri dovrà riprogrammare tutto ciò che è saltato. È auspicabile che si faccia, ma a chi non aveva già un progetto all’interno dei circuiti di programmazione, servirà più di un anno dalla riapertura per poter trovare spazi, fare nuove proposte e rimettere in atto il lavoro: è un terremoto per gli artisti, per la creatività, per il sistema culturale.
La classe politica che si occupa dello spettacolo dal vivo dovrebbe riuscire a profondere un impegno che sia frutto di una progettualità e di una visione di largo respiro volte al cambiamento, per far sì che questa crisi non porti solo devastazione, ma anche l’occasione di investire nel nostro patrimonio teatrale, nelle maestranze dell’artigianato teatrale.
Perché non riconvertire i teatri chiusi in spazi di ricerca e o di formazione per artisti e tecnici? Spazi in cui poter provare e produrre nuovi lavori da poter distribuire alla riapertura. A fronte dei finanziamenti concessi ai teatri, perché non si sono aperte almeno le sale prove ad uso e beneficio degli artisti che avessero voluto continuare i loro percorsi e processi di creazione, o semplicemente ospitare danzatori e performer che avevano bisogno di tenere il proprio corpo in allenamento? Poteva essere un’occasione di formazione e riqualificazione per tutte le professioni dello spettacolo dal vivo, o almeno di sopravvivenza; un modo per non sradicarli dalle loro scelte di vita e dal territorio di appartenenza, per non far perdere loro il contatto con la propria identità e non dimenticarla. Invece si è scelta una strada di assistenzialismo demagogico, aiuti una tantum offerti a chi restava inoperoso, rinchiuso. Si poteva proteggere tutti i lavoratori semplicemente formulando diversamente le regole e i meccanismi di ripartizione delle economie del comparto. Ma bisogna conoscere bene la dinamica sfaccettata del lavoro artistico e culturale per operare e tracciare le regole a salvaguardia di chi questa crisi la sta vivendo più tragicamente: tecnici, attori, registi, danzatori.
Non si può lasciare una questione così importante, da cui dipende la sopravvivenza del settore, alle decisioni della dirigenza di un singolo teatro, di una fondazione, di un ente. Ci dovrebbero essere delle direttive frutto di una visione “sistemica”, di una visione davvero sfaccettata, almeno quanto lo è il sistema cultura in Italia.
E noi dovremmo riuscire a superare le difficoltà che comporta un mondo di istanze eterogenee, di anime diverse; dovremmo essere più abili nell’imparare a formulare e ad aderire a rivendicazioni comuni: dobbiamo tentare di formare un nostro animo corporativo che abbia a cuore le sorti di tutte le anime del comparto. Purtroppo in questo senso, in Italia, non abbiamo mai avuto una vera vocazione unitaria e di dialogo.
In un anno sentire dal Ministro solo la proposta della Netflix della Cultura è troppo poco. Da questo poi è nata una polemica che non metteva a fuoco il problema reale ma che ne creava un altro esclusivamente teorico il quale, però, non aveva attinenza con ciò che ci accadeva intorno: teatro in streaming, è possibile?
Ma questa discussione per quanto interessante era fuori luogo: parole vuote, tentativi numerosi e vani di streaming che sono stati semplici palliativi alla stasi, che non hanno generato nessun ricircolo economico e di interessi nel mondo teatrale.
Dello streaming se n’è parlato spesso come di una nuova terra dell’oro in cui tutti gli orfani del teatro potessero trovare una nuova collocazione. Personalmente non sono contro lo streaming in sé, non sono un purista. Ma dobbiamo essere consci che quello che si sta proponendo non è teatro: si tratta della conversione di un linguaggio in un altro totalmente diverso, e ci vogliono risorse e investimenti per queste riconversioni.
Non basta riprendere il palco con una camera fissa e buttare il tutto in pasto al web in modo rozzo. Così si rende un brutto servizio tanto a chi ha lavorato allo spettacolo, quanto al pubblico.
E al di là di come venga utilizzato il mezzo, non è pensabile che i teatri sovvenzionati propongano come unica attività spettacoli di repertorio in streaming.
Per fortuna ci sono stati anche esempi di teatri virtuosi che hanno fatto di più o che almeno ci hanno provato.
In Argentina dalla crisi del 2002 è nata come reazione un’onda di drammaturghi, registi e attori che ha fatto della povertà e dell’austerità imposta dal tracollo economico il trampolino per raggiungere la loro inconfondibile visionarietà, il campo di apprendimento delle loro invidiabili doti.
Speriamo che anche per noi questi tempi terribili siano crogiuolo di rinascita.
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