
Fontana Project: omaggio NoGravity al padre dello Spazialismo
Dal 5 al 7 novembre in prima nazionale al Teatro Ciro Menotti di Milano, i NoGravity presentano Fontana Project, uno studio-omaggio al padre dello Spazialismo. Ancora oggi Fontana si pone come un interlocutore di rinnovata attualità per i due coreografi del gruppo, che accolgono la sua poetica nel loro orizzonte di ricerca. Il fondatore e direttore della compagnia Emiliano Pellisari e la prima ballerina e co-coreografa Mariana Porceddu sono infatti noti per superare nei loro progetti i confini e le differenze tra i vari campi delle arti performative. In altre parole, sono soliti agire in pieno stile spazialista.

Le basi del Movimento Spaziale vengono poste nel Manifiesto Blanco che Lucio Fontana stila insieme ad altri artisti nel 1946 a Buenos Aires. La nuova tendenza artistica auspica un’arte integrale che rifiuti l’immagine naturalistica e si serva di luce, suono, vuoto spaziale. All’arte viene richiesto un cambiamento nell’essenza e nella forma. Per il superamento della pittura, della scultura, della poesia e della musica, è necessaria un’arte maggiore in accordo con le esigenze dello spirito nuovo. L’artista depone i pennelli per maneggiare lame di rasoio, coltelli e seghe. Nasce una nuova estetica fatta di forme luminose negli spazi. Movimento, colore, tempo e spazio sono i concetti chiave della nuova arte.

La performance prende le mosse dal taglio. La “fase dei Tagli” (1958-1968) rappresenta il momento apicale della produzione di Fontana. In questo periodo l’obiettivo dell’artista diviene oltrepassare la superficie della tela di supporto. Il distacco dalla vecchia arte e l’avanzamento verso l’arte nuova creano un continuum tra Spazio (la tela tagliata) e Tempo (il gesto istantaneo del taglio). Si giunge all’arte spaziale mediante il gesto del suo artefice.
L’artista poliedrico media la lezione del Barocco, in cui le figure sembrano abbandonare il piano di supporto per proseguire al di fuori di esso, nello spazio circostante. La continuità nello spazio costituisce una delle componenti fondamentali che permeano l’Arte nel corso del Novecento, dal Futurismo fino al termine del secolo. La stessa ambizione a realizzare un’opera d’arte totale ed onnicomprensiva è avvertita da più menti di diversa provenienza artistica. Rappresenta una delle esigenze capillarmente più diffuse del secolo breve. Non sorprende dunque rinvenire questi elementi in una performance, il dispositivo che più di ogni altro è in grado di restituire il senso del gesto dell’autore. Il taglio non è altro che un atto performativo: incidendo la tela se ne frantuma l’illusorietà di natura di supporto e si trasforma l’opera in materia. Non più piano bidimensionale, ma struttura tridimensionale.

Lo stile di Pellisari è strettamente legato agli studi sul teatro greco e rinascimentale e alle invenzioni meccaniche del diciassettesimo secolo. In molti dei suoi lavori il regista-coreografo si rifà al teatro delle meraviglie del Gran Barocco italiano. Ma le ragioni che si celano dietro la genesi di quest’ultimo studio rispondono a sollecitazioni di origine diversa. Ciò a cui il regista ambisce sono sempre movimento, tempo e ritmo; questa volta a partire dall’opera del pittore, scultore e ceramista che inventò lo Spazialismo.
«Fontana ha capito che solo sul confine si può trovare lo sguardo verso il tutto, i suoi tagli rappresentano delle possibili aperture verso l’altrove, verso una terza dimensione oltre i limiti imposti dalla piattezza del quadro. Il mio lavoro è riaprire il taglio, rimettere in moto le cose seguendo un tempo, quel ritmo sonoro che ci incanta da sempre attraverso il movimento che diventa necessario per percepire il senso del tempo. L’emozione di uno spazio in movimento ci conduce verso ciò che noi chiamiamo arte-nel-tempo, ovvero la nuova arte di Fontana»
Emiliano Pellisari
Lo studio è articolato in due momenti intervallati da uno stacco di buio, silenzio e vuoto spaziale. Obiettivo della ricerca è affinare un linguaggio corporeo sui contenuti di Fontana e sulle influenze cui lui stesso fu soggetto. Se per sviluppare un linguaggio è necessario partire da una grammatica, ecco che il primo momento performativo prende il nome di Opera Grammaticale n. 1, grammatica del corpo. In questa prima fase del lavoro Emiliano Pellisari riapre letteralmente i tagli chiusi sulle tele distese. Lentamente da quell’Oltre così evocato emerge un corpo. È il corpo di Mariana Porceddu, un corpo nudo che si sposta nello spazio in tutta la sua tridimensionalità. Davanti e dietro ai teli bianchi, sopra, sotto, dentro e fuori.

Una breve interruzione sancisce il passaggio alla messa in atto delle potenzialità appena sperimentate dal corpo. L’armonia della danza, i giochi di luci, la musica tornano quindi ad intrecciarsi in modo sognante nell’Opera grammaticale n. 2, grammatica dello spazio, che costituisce il secondo momento del lavoro. L’artista è il servo di scena e, interamente vestito in nero, tenta di cancellarsi per lasciare spazio all’incanto visionario della sua creazione. Sottopone a stimoli continui la sua opera, incarnata dalla ballerina ora vestita in bianco. L’artefice cerca continuamente di svelarla per farla emergere. La scova, la cerca, la trova. La sua opera gli sfugge dalle mani, reagisce alle sue sollecitazioni: muta costantemente. Mariana Porceddu torna puntualmente a celarsi dietro i teli ora illuminati di rosso.

Al termine della performance, la coppia nel lavoro e nella vita si siede a bordo palco. Il dibattito finale con il pubblico è di vitale importanza allo stadio embrionale di uno studio di performance.
Le prime curiosità del pubblico riguardano lo spazio, il dispositivo di scena. I teli sono tesi sul palco, dove agiscono i due artisti. Sopra di loro, inclinato verso il pubblico, un enorme specchio copre quasi interamente le dimensioni del palcoscenico. L’impalcatura riflette i loro movimenti, restituisce allo spettatore inebriato di immagini, gesti, colori, un piano uguale e allo stesso tempo altro rispetto a quello in cui si svolge l’azione. Risuona l’eco delle parole di Fontana: «Allo spazio viene data un’accezione anche fisica, non solo di trompe-l’oeil pittorico, ma di superficie attraversata dalla luce, costruita con la luce stessa». Il trompe-l’oeil a cui assistiamo in questo caso lo vediamo inclinato davanti ai nostri occhi: fino a quando non si percepisce l’inganno, i due corpi sembrano spostarsi e aleggiare sospesi nel vuoto.

«Forme uniche nella continuità nello spazio di Boccioni è stata l’opera che più mi ha sconvolto nella mia vita. Avevo 19 anni. Sono passati più di 30 anni ed ancora oggi lo spazio ed il tempo sono gli assi portanti del mio lavoro artistico. Ovviamente anche il colore, la luce e la materia non sono dei dettagli, però possono diventarlo». Queste le parole di Emiliano, in cui ritroviamo i modelli di Fontana, il respiro di un’epoca e la verità di un ambiente artistico strettamente interconnesso.
In risposta ad una suggestione dal pubblico circa la posizione fetale che ha assunto in diversi momenti della performance, Mariana riflette invece sull’idea di nascita, specialmente relativa all’opera d’arte. Da un lato il punto di vista del creatore, dall’altro quello complementare della sua creazione. Il primo si concentra sulle forme della propria arte, sulle sue modalità espressive; la seconda racconta i contenuti trovati e vissuti sulla propria pelle.
Entrambi alla fine rivestono i loro abiti di artisti, tra rivelazioni, confidenze e battute con il pubblico. Congedano gli spettatori con il racconto di una quotidianità lavorativa impossibile da portare avanti, se non con la più totale fiducia nell’Arte, intesa appunto nella sua totalità.
«Con le risorse della tecnica moderna faremo apparire nel cielo forme artificiali, arcobaleni di meraviglia, scritte luminose»
LUCIO FONTANA
secondo manifesto dello spazialismo, Milano, 18 marzo 1948
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